Un progetto che unisce l’agricoltura all’industria nella filiera corta, dal rosso dei pomodori al bianco del cotone: Gest è la scommessa di due imprenditori pugliesi nella prima filiera di cotone bio e italiana
Gest, il progetto per una filiera di cotone bio in Puglia, nella zona della Capitanata
La zona della Capitanata in Puglia – la più estesa pianura agricola in Italia dopo la Pianura Padana – ospita, dal 2019, un progetto agro-industriale inedito: una filiera di cotone 100% bio e made in Italy. «La chiamiamo filiera corta, cortissima. Perché partiamo dal seme e dalla terra per arrivare al prodotto finito. Siamo diventati dei collanti tra l’agricoltura e l’industria», spiega Michele Steduto, uno dei due soci di Gest, l’azienda che ha riportato la coltivazione del cotone tra Foggia e San Severo. «Il progetto è partito con un piccolo appezzamento di terra, tre ettari, quindi anche con l’incoscienza di fare un progetto che non si pensava diventasse poi così importante. Impieghiamo una persona per ogni ettaro di cotone coltivato, in tutte le fasi della lavorazione. Oggi, con 300 ettari messi a coltura, nella catena lavorano circa 300 persone: dall’agricoltore, all’affilatore fino al tessitore».
Investimenti e ritorno economico del progetto Gest – filiera tessile corta
Secondo il rapporto Coldiretti 2023: il ritorno del cotone italiano, realizzato sul progetto foggiano, nell’anno di riferimento la produzione ha raggiunto oltre 35 quintali per ettaro, con quotazioni di 140 euro al quintale se biologico e 110 euro al quintale se tradizionale. Coldiretti stima che la coltivazione costa tra gli 800 e i 1.200 euro ad ettaro per l’acquisto dei semi, la concimazione, l’irrigazione, la manodopera, il gasolio per i macchinari e la raccolta. «Quando la coltivazione è stata abbandonata, circa 70 anni fa, si produceva meno del 50% di quello che facciamo oggi. La lavorazione era al 90%, 95% manuale. Prima si lavorava il cotone in modo più prettamente familiare, c’erano piccoli appezzamenti, si raccoglieva a mano, si faceva asciugare, si sgranava: i piccoli sgranatoi che erano nella città di Apricena. In molti campi si coltivava senza l’ausilio di acqua e quindi le produzioni andavano sui 15-17 quintali, anche 12 quintali per ettaro».
L’investimento iniziale di Gest è stato milionario, ma preciso nell’obiettivo: la realizzazione di una filiera tessile corta e made in Italy, estesa oggi anche al campo della cosmesi. «Abbiamo creduto alla filiera dal primo giorno di questo progetto. Siamo nati con un brand di abbigliamento, il brand Gest, doveva inizialmente produrre camicie e guardandoci un po’ intorno ci siamo sempre chiesti perché non c’era un prodotto totalmente made in Italy presente sul mercato, che partissero dalla materia prima. Partendo dalla filiera, dal basso, dal seme, si è creata la materia prima. Con queste premesse, abbiamo cercato e trovato i semi provenienti dalla Grecia, che più si adattavano al terreno e al clima in Puglia»
La storia della produzione di cotone in Italia, e le certificazioni attuali
Il cotone è presente in tutte le aree geografiche con Cina, Stati Uniti, India, Pakistan tra i maggiori produttori, mentre in Europa viene coltivato in Grecia e Spagna. In Italia, la coltivazione si è diffusa nel Novecento in molte aree del Sud Italia, in particolare dalla Sicilia fra l’Agrigentino e la piana di Gela, ma è stata abbandonata a partire dagli anni Sessanta per l’avvento delle fibre sintetiche, lo strapotere del prodotto straniero e il peso dei costi di produzione considerato che la raccolta all’epoca avveniva a mano. In Italia, secondo l’analisi della Coldiretti le importazioni nel 2022 hanno superato i 212 milioni di chili per un valore di oltre 1,3 miliardi di euro.
La fibra di cotone bio ha due certificazioni: parte dalla fibra biologica coltivata in agricoltura, passando dal tessuto, chiamato GOTS, fino ad arrivare al capo finito. Tutte le fasi di lavorazione del cotone di Capitanata seguono le certificazioni biologiche e avvengono in Italia, una caratteristica che ha fruttato all’azienda collaborazioni con le grandi firme della moda, da Burberry a Armani.
Ginatura – la fase di separazione del batuffolo dal seme – e filatura
L’investimento più recente dell’azienda foggiana riguarda la ginatura, la fase di separazione del batuffolo dal seme, una delle trasformazioni più grosse e costose nella lavorazione del cotone. Un discorso a parte è il processo di filatura: «La filatura non è nostra, la realizziamo in collaborazione con un’azienda partner, sempre italiana. Un impianto di filatura ex novo oggi costerebbe milioni di euro, non potremmo permettercelo perché abbiamo fatto già un grande investimento quest’anno per fare l’impianto di trasformazione. Per lavorare in una catena produttiva abbiamo bisogno di altri saperi: noi non siamo esperti di filatura quindi non potremmo realizzarla, il progetto è affidarla ad aziende leader del settore in Italia».
Per la filatura del cotone foggiano, Gest si è affidata ad Albini Group, una delle due aziende bergamasche che filano il cotone in Italia. Dal 2012, in seguito alla necessità di avere un centro di ricerca e di sviluppo per produrre tessuti sempre più fini e controllati è nata la società parallela al gruppo I Cotoni di Albini, che ha chiuso il 2019 con un fatturato di ventotto milioni.

Gli esperimenti di coltivazione del cotone in Italia all’inizio del 1900
Nel 1903 una crisi causata da una carenza di cotone e dall’acquisizione speculativa del mercato da parte di grandi capitalisti colpiva l’Europa. Si pensò allora di sviluppare la coltivazione del cotone in Italia come soluzione alla dipendenza dal cotone estero, in particolare quello americano. Gli esperimenti di coltivazione del cotone in Italia all’inizio del 1900 facevano parte di un più ampio interesse nazionale e internazionale verso l’autosufficienza nella produzione di materie prime essenziali in risposta a crisi economiche e di approvvigionamento. Esperimenti di piantagioni furono condotti, a macchia, in Sicilia e nel Sud Italia fino a raggiungere, sotto il fascismo, le colonie italiane del Corno d’Africa. Per ragioni climatiche, di concorrenza e di costo del lavoro, la produzione di cotone in Italia è abbandonata a partire dagli anni Cinquanta.
Il ritorno del cotone in Italia è anche il risultato della tropicalizzazione del clima
Il ritorno del cotone in Italia è anche il risultato della tropicalizzazione del clima che ha già fatto registrare negli ultimi anni l’introduzione di nuove specie coltivate in sud Italia come il mango, l’avocado e le banane e che ha fatto spostare molto a nord l’areale di presenza della coltivazione dell’olivo. Lo conferma anche Steduto: «naturalmente quei 2-3 gradi in più che abbiamo, a differenza di 70 anni fa, favoriscono ancora di più la coltivazione. Le regioni in cui si coltiva il cotone nel mondo sono molto calde: più il clima è caldo meglio è per la crescita della pianta di cotone».
Il principale produttore è la Grecia, che rappresenta l’80% della superficie coltivata a cotone in Europa
L’ingresso dell’Italia nell’Unione europea ha portato a una ridefinizione delle politiche agricole (la Pac) con un focus su colture sostenute da sovvenzioni e quote di produzione che non favorivano necessariamente il cotone. Secondo i dati della Commissione europea attualmente solo tre paesi dell’Ue producono cotone, su circa 320 mila ettari. Il principale produttore è la Grecia, che rappresenta l’80% della superficie coltivata a cotone in Europa, seguita dalla Spagna (e in particolare l’Andalusia), che copre il restante 20%. La Bulgaria produce cotone su una superficie inferiore ai mille ettari. I finanziamenti europei sono difficilmente raggiungibili su una scala considerata ancora piccola in Italia, ma Steduto sottolinea un’altra difficoltà della giovane filiera: «Il grande problema dell’industria tessile è che non ha mai guardato i problemi dell’agricoltura. L’industria tessile pensa principalmente a capire come abbassare di 10 centesimi il costo del cotone, il costo della fibra, non preoccupandosi dei costi del cotone biologico. Si vuole una produzione di cotone che poi abbia la certificazione, però poi alla fine non riusciamo ad avere un contatto diretto con l’agricoltura».