Il partenariato Premium fra LVMH e le Olimpiadi 2024 vs The Rest, ovvero la moda indipendente – qual è il valore del business di moda alle Olimpiadi di Parigi 2024?
Cosa significa Media Impact Value?
Bisogna vestire i migliori, i campioni, quelli più in vista, che garantiranno il massimo Media Impact Value™ (MIV®). Il MIV è uno standard di misurazione brevettato dalla piattaforma di raccolta dati Launchmetrics per consentire ai brand di assegnare un valore monetario ad ogni menzione dedicata, cosicché ogni abito ri-postato sui social o citato in qualche articolo possa essere convertito in soldo. Di MIV si parla soprattutto nel caso dei red carpet, dove gli abiti maggiormente apprezzati guadagnano una copertura editoriale più ampia, e dunque maggiore visibilità e ritorno economico.
Dal business dei red carpet a quello olimpico, il passo è breve, se anche le uniformi sportive – per tradizione, capo funzionale piuttosto che estetico – sono state toccate dal famigerato MIV. E se è vero che ogni pausa dal gioco può essere una sfilata e ogni commento sul vestiario un intercalare tra un’esultazione di vittoria e un ammonimento di sconfitta, è anche vero che le passerelle di ieri possono essere i campi sportivi di oggi. In una sorta di corsa agli armamenti, le Maison si contendono il diritto di progettare e produrre gli abiti dei campioni in carica promuovendo le loro creazioni con presentazioni tanto coreografate quanto una presa di pattinaggio artistico. E non è certo una corsa sui cento metri: alla nomina della successiva città ospitante, e dunque con un preavviso di otto anni, le case di moda sono già pronte sul segnale del via, consapevoli del fatto che chi gioca in casa sarà il favorito. Non sorprenderà allora sapere che i Giochi Olimpici e Paraolimpici 2024 ospitati dalla città di Parigi vedranno il monopolio del conglomerato francese LVMH: Louis Vuitton, Dior e Berluti forniranno le uniformi per i team, il marchio di alta gioielleria Chaumet realizzerà le medaglie, mentre la divisione bevande Möet Hennessy sponsorizzerà e fornirà lo champagne per le celebrazioni. E così si è compiuta la brandizzazione delle Olimpiadi.
La haute couture Autunno Inverno 2024/2025 ha la febbre olimpica – il balletto di Schiaparelli
La febbre olimpica sembra aver contagiato anche la haute couture, trasformandola in quella che, in una sintesi linguistica tra athleisure e couture, potremmo definire athcouture. Le sfilate di quest’anno, tenutesi l’ultima settimana di giugno – al posto di luglio, come vorrebbe la tradizione – proprio per evitare la sovrapposizione con le gare, hanno voluto ugualmente mantenere una certa sovrapposizione tematica. Lo si è visto fin dalla sfilata di apertura della settimana, quella di Schiaparelli, non più ospitata dal Petit Palais, reso inaccessibile proprio per via delle Olimpiadi, ma nella cantina dell’Hotel Salomon de Rothschild. L’ambientazione era teatrale, l’atmosfera, per ammissione dello stesso Direttore Creativo Daniel Roseberry, quella di uno spettacolo di balletto.
La collezione, intitolata La Fenice, comprendeva trentuno ensemble, in cui i temi del rinnovamento e della rinascita trovavano varia declinazione. Un mantello di velluto nero con grandi ali ricamate di piume, un abito tempestato di spine, una giacca con colletto ricamato di penne di organza di seta: tutto riportava all’immaginario dell’animale che non muore mai. Della fondatrice della Maison, Elsa Schiaparelli, c’erano le spalle larghe, i turgori della materia, i volumi portati all’eccesso, le maniche a sbuffo e le silhouette a V rovesciata. Alle Olimpiadi, un richiamo sottile, sulle note dello sport che meglio si addice alla foresta incantata scenografata nell’Hotel Salomon de Rothschild: la danza.
Haute Couture Autunno Inverno 2024/2025 – La couture agonistica di Thom Browne e la liberazione dei corpi di Dior
Il richiamo al mondo olimpico si è fatto più incalzante da Thom Browne, già nuotatore durante gli anni dell’università e non estraneo al mondo sportivo: nella collezione del 2021 aveva messo in scena un prospetto in formato moda di come si immaginava le uniformi dei giochi del 2131. Per la couture Autunno Inverno 2024/2025 si è spinto oltre, con un défilé inaugurato da un tiro alla fune e conclusosi con una mostra di medaglie oro, argento e bronzo su un podio allestito per l’occasione. A monitorare l’intera sfilata c’era un arbitro olimpico, con una corona d’oro sul capo e una borsa a forma di fischietto che pendeva dalla spalla. Ad attraversare l’intera collezione, il tema dell’uguaglianza, ovvero di come la competizione sportiva ci renda tutti uguali di fronte al giudice di gara. Un tema che si è tradotto nell’uso insistito della mussola grezza, il cosiddetto ‘livellatore della moda’, punto di partenza di ogni creazione. Un materiale ruvido, imperfetto, che Thom Browne e il suo atelier hanno elevato allo status di materiale prezioso con una lavorazione all’uncinetto. A tale base, si sono poi aggiunti diversi riferimenti olimpici, come un bikini in trompe d’oeil, un abito con figure di lottatori o un abito con muscolatura rosso vivo dipinta.
Per Maria Grazia Chiuri non si è trattato di uguaglianza, quanto di libertà. La sfilata Dior haute couture Autunno Inverno 2024/2025 si è svolta come una performance di liberazione dei corpi, laddove le gabbie di crinolina e i rigidi bustier tanto cari al fondatore della Maison sono stati sostituiti da lunghi pepli. Punto di partenza della costruzione degli abiti sono stati per Chiuri il subligar e lo strophium, rispettivamente una mutanda sgambata e una fascia di tela per coprire i seni, utilizzati dalle donne dell’antica Roma durante le competizioni agonistiche. Dunque, un immaginario classicista, che vedeva nello sport una parte fondamentale dell’educazione femminile. Il tema femminile, sempre presente nel moodboard di Maria Grazia Chiuri, si attesta così come trait d’union fra costumi piumati, body, tute ginniche, gambaletti e la libertà di movimento.
La vestizione degli atleti nell’immaginario olimpico
Se le sfilate della haute couture Autunno Inverno 2024/2025 hanno anticipato quanto atteso per il mese di luglio, della vestizione degli atleti come voce di spesa del Fashion System si è iniziato a parlare già nel 2014. Già allora John Branch – giornalista sportivo e Premio Pulitzer 2013 – firmava per il New York Times un pezzo dal titolo Gli stilisti si ritagliano una passerella ai Giochi Olimpici. Al dato di fatto osservato da Branch secondo cui pedane, trampolini, campi di erba plastificata o di cemento stavano assumendo sempre più la forma di passerelle a la mode, seguiva un elenco di osservazioni sulla sofisticazione delle ultime uniformi atletiche: «[…] Le Olimpiadi parlano di moda […] anche per i fan che ignorano allegramente che le uniformi della squadra di sci alpino degli Stati Uniti sono state progettate per evocare la bandiera nazionale riflessa nell’acqua di Fort McHenry la mattina dopo il bombardamento britannico di 200 anni fa […] o che l’interno delle giacche da freeskiing americane include una stella gialla ritagliata da un tessuto che è stato sul Monte Everest, mentre gli snowboarder indossano pantaloni e giacche in velluto a coste ispirati a una coperta trovata in una mostra di antiquariato». La passerella più rilevante sarebbe stata, sempre secondo Branch, quella della cerimonia di apertura, per la quale, da buon americano, prendeva a modello le uniformi indossate della sua nazione: il pezzo forte dell’ensemble sportivo Made in Usa erano i cardigan ricamati con una serie di motivi tanto patriottici da poter essere paragonati ad una Times Square o ad una Statua della Libertà.

Nessuno è esente dal monopolio del branding
A questo punto, sorge spontaneo chiedersi il perché di tanta fatica per produrre piccoli lotti di uniformi high-tech con loghi appena visibili e non destinati alla vendita. Per i meno informati, le regole delle uniformi olimpiche sono ben spiegate in un pamphlet dal titolo Guidelines Regarding Authorised Identifications dove si specificano la grandezza, la posizione e i colori possibili per ogni logo, suddivisi per categoria di sport. Se l’interno delle giacche permette maggiori libertà, l’esterno richiede rigore e poche smancerie stilistiche. Eppure, per porre il proprio logo in formato miniatura sulle uniformi delle Olimpiadi 2024 il più grande conglomerato del lusso avrebbe speso centocinquanta milioni di euro. Un investimento che, si legge sulle testate di settore, sarebbe stato il colpo del secolo. Il motivo? Il branding. In termini tecnici, si parla di branding per indicare l’insieme delle attività volte al consolidamento dell’immagine di un brand all’interno del mercato. Tradotto in gergo non marchettaro, le aziende pagano per avere il diritto di sponsorizzare le squadre olimpiche e realizzare le uniformi, ottenendo in cambio l’opportunità di raggiungere un pubblico globale.
In un mondo dominato dallo streaming e dall’ on demand, lo sport è rimasto il solo contenuto televisivo che vale la pena seguire in diretta. Nella generale dispersione degli ascolti e delle visualizzazioni, il match sportivo rimane l’unica eccezione in grado di catturare l’attenzione di tanti su un unico schermo. E la questione non riguarda solo le Olimpiadi – che della liaison tra moda e sport è l’espressione più evidente – bensì il mondo sportivo tout court. Basket, calcio, Formula 1 e tennis, dove quest’ultimo è stato investito dal boom cinematografico di The Challengers, ultima pellicola di Luca Guadagnino, svolta a suon di tennis-core e Zendaya-core. Dunque, un valore commerciale in ascesa confermato anche da dati alfanumerici: secondo un prospetto della società di consulenza PwC, il mercato delle sponsorizzazioni sportive crescerà dai sessanta miliardi del 2021 ai centodieci miliardi entro il 2030.
Olimpiadi 2024, moda indie e ruvidità
Il partenariato tra LVMH e le Olimpiadi 2024 è stato definito dal suo CEO, il magnate Bernard Arnault, come ‘Premium’. In altri casi si è parlato di LVMH Vs The Rest, a significare un braccio di ferro tra LVMH e ‘Gli Altri’. Oltre ai soliti nomi noti – Nike, Puma e Adidas fra tutti – le prossime Olimpiadi vedranno infatti la presenza di altri, ovvero di marchi indipendenti, nuovi al business della competizioni sportive. Ci sarà Ashpool, brand parigino fondato dallo stilista Stéphane Ashpool e già noto all’Industry per le sue collaborazioni sull’haute couture di Nike e Chanel, con interpretazioni d’avanguardia di un abbigliamento sportivo altamente performante. Nel caso di Ashpool e della sua collaborazione con il Team Francia, si tratterà del primo designer indipendente assunto dal comitato olimpico di un paese come direttore creativo per l’abbigliamento. A dare una possibilità alla moda indie ci sarà anche il Team Irlanda, le cui giacche ricamate con motivi nazionali e personali, specifici per ciascun atleta, sono state affidate al brand di tessuti LW Pearl. Poi, ancora, la firma di costumi da bagno Left On Friday per le squadre di pallavolo del Canada e l’etichetta Actively Black per le uniformi delle squadre nigeriane.
Il coinvolgimento di brand indipendenti e di nicchia, ovvero di una moda ruvida di contro a quella liscia e patinata dei grandi marchi, con competenze iper settoriali, si deve anche al palcoscenico privilegiato della Ville Lumière, città di moda per definizione. La presenza di un gruppo tanto importante quanto scomodo come LVMH non è bastato a dissuadere firme minori, desiderose di una fetta di visibilità che, per quanto scarsa, può pur saziare. La sola cerimonia di apertura del 26 luglio richiamerà sul piccolo schermo un miliardo di occhi attenti, con oltre trecentomila presenti in loco. E così, anche le partnership collocate sulla più piccola scala di grandezza avranno comunque un vantaggio sul campo della moda rispetto a chi ha rinunciato in partenza.
Marketing culturale: Il capitalismo trans-estetico che unisce moda e sport
Al di là delle limitazioni effettivamente imposte dalle Guidelines Regarding Authorised Identifications, il solo registro accettato alle olimpiadi parigine è quello della creazione e della bellezza. Bandite dal Villaggio Olimpico le tute da ginnastica – non era forse Karl Lagerfeld a sostenere che «I pantaloni della tuta sono un segno di sconfitta: quando perdi il controllo della tua vita, te ne compri un paio» ? – i marchi del lusso, che siano indie o mainstream, ricercano nel circuito delle alte competizioni sportive un’approvazione culturale altrettanto alta.
Per i brand, lo sport rappresenta una frontiera chiave delle strategie culturali, volte a intercettare canali d’intesa con i consumatori che vadano al di là della moda stessa. È quello che il filosofo e sociologo francese Gilles Lipovetsky ha definito capitalismo trans-estetico, a significare l’immissione sistemica dell’arte e della cultura in ogni territorio di consumo. Tutto è iniziato a fine Ottocento, quando le brutture prodotte dalla neonata industria sono diventate oggetto di critica da parte degli intellettuali, promotori di un giusto equilibrio fra tecnica, economia e bellezza. Si è giunti, oggi, sul versante opposto, laddove basta acquistare una bottiglietta di Campari per vantare la proprietà di un Fortunato Depero.
Nell’età dell’iper-consumo, con artisti e designer chiamati a disegnare oggetti assolutamente commerciali, la forma estetica è essenziale. Vale per le penne, per la carta igienica, per le bibite in bottiglia e per l’abbigliamento olimpico. A riconferma dell’estensione del fenomeno olimpico, da competizione dura e pura a fatto di arte e di moda, troviamo il programma delle Olimpiadi Culturali 2024, comprensivo di una serie di mostre, eventi e talk, incrociati sul filo del tema sportivo. Il Musée des Arts Décoratifs ospita la rassegna Mode e sport. D’un podium à l’autre, con oltre quattrocento capi a delineare l’evoluzione della moda sportiva, fino alla sua ultima declinazione in sportswear degno di passerella. Il Palais Galliera accoglie la mostra La mode en mouvement, con duecento pezzi divisi per sezioni tematiche, dal nuoto al ciclismo, dal jogging all’equitazione. Target di riferimento delle novelle olimpiadi culturali è il consumatore estetico, più che sportivo, il turista della cultura e della moda, in grado di cogliere quel logo miniaturizzato sul colletto dell’atleta che a LVMH è costato centocinquanta milioni.