Le dipendenze, gli errori da giovane, la sobrietà ritrovata e l’ultimo album Quaranta: face to face con un uomo che ha finalmente trovato la sua dimensione artistica
Intervista a Danny Brown – Quaranta è il titolo del suo ultimo album
«Siamo atterrati ieri da Lisbona» mi racconta Danny Brown, appoggiato a un tavolo nel backstage dei Magazzini Generali, a Milano. Non nasconde una certa stanchezza, nonostante manchino ancora 5 ore al concerto. Il tour è quasi finito e Danny è decisamente pronto a tornare a casa. La vita in tournée però non gli dispiace, anzi. Riesce a divertirsi senza tutti gli eccessi che di solito sono connessi alla vita degli artisti in viaggio, e che hanno coinciso anche con buona parte della sua vita da adulto. «Sono sobrio da più di un anno, ormai. Per la precisione, da 430 giorni. Ho un’app sul mio cellulare che me li conta». Quando gli chiedo come sta gestendo la cosa, risponde: «Non la sto gestendo, è così e basta».
Il suo unico hobby è la musica, ed è anche contento di essere tornato a farla nel migliore modo possibile, senza essere segregato in casa. Quaranta, il titolo del suo ultimo album uscito nel novembre 2023 deriva infatti da “quarantine”, un periodo pandemico che è stato difficile per tutti. Ma che, per lui, ha coinciso con uno dei punti più bassi raggiunti dalla sua salute mentale. Da questa buca nera e profonda non poteva che emergere il suo disco più sincero, intimo, profondo.
Danny Brown: il rap e la moda
Nel primo pezzo, dice che il rap gli ha salvato e rovinato la vita allo stesso tempo. «Il successo e tutto ciò che ne deriva ti fa sentire molto sotto pressione. Per colpa di queste cose puoi perdere molti amici e familiari che dipendono da te. Puoi deludere molte persone e cadere in una depressione profonda. Figo essere originali, fare musica sperimentale e underground – ma spesso sono stato tentato di fare canzoni più commerciali, per vendere di più e assicurare ai miei parenti più stabilità economica».
A sentirlo parlare di moda si vede il suo sguardo illuminarsi, e il suo tono della voce farsi più allegro. «È sempre stata parte della mia vita. Mio padre ha sempre letto riviste. Ritagliava le foto che gli piacevano di più e le attaccava al muro. È sempre stato attento al suo look. E io come lui. Mi ha sempre portato vestiti da mettere».
Più di una volta, Danny si è fatto fotografare con indosso magliette di gruppi black metal norvegesi decisamente estremi, come i Mayhem. Mentre parliamo, invece, indossa un completo tutto in lattice nero, a metà tra il vampiro e il BDSM. I suoi capelli sono tinti per metà di verde lime e l’altra metà fucsia. Tutto ciò potrebbe denotare una certa propensione per il metal, e quando glielo fai notare ti ringrazia, ma: «Più che metal, ho sempre ascoltato il nu-metal. Quella è stata la prima forma di metal a cui mi sono approcciato, per via delle sue influenze hip hop. Ti parlo di gruppi come i Rage [Against the Machine, ndr], i System of a Down, Korn».
In musica, temi come il suicidio, orientamento sessuale o politico per molti sono ancora off limits
Forse è questa doppia natura, tra il rockettaro e il rapper, ad averlo aiutato a uscire dagli schemi prestabiliti. Per molti anni, tanto per cominciare, quello della salute mentale è rimasto un tabù nel rap di un certo tipo. Fino a buona parte degli anni Duemila, soprattutto nel gangsta rap, ammettere l’esistenza dei propri demoni non è stato né più né meno di uno stigma. O, comunque, qualcosa da non ammettere mai pubblicamente. A Danny invece, abituato a surfare diagonalmente tra generi, interessi e arti, questa cosa non ha mai toccato granché. «Non ho mai percepito queste cose come un tabù. Basta solo guardare a tutto ciò che è stato il movimento emo fino a oggi. La musica per me è sempre stata la migliore terapia. Mi permette di parlare di ciò che sto attraversando. Ho sempre preferito ascoltare artisti che non si fanno problemi a parlare di queste cose».
Secondo Danny non esistono in generale dei tabù nella musica, perché se così fosse vorrebbe dire che ci sono anche dei tabù nella vita. Su questa parte non ci troviamo molto d’accordo, per il semplice fatto che molte persone a volte omettono un argomento per una propria insicurezza. O, peggio, per un’imposizione di altri o, direttamente, della società. È facile pensare che un rapper che intitola un album Scaring The Hoes insieme all’amico JPEGMAFIA non si faccia problemi a parlare fuori dai denti e forse anche provocare. Ma, ecco, checché ne dica Danny, i tabù purtroppo ci sono ancora, nella musica e non. Suicidio, orientamento sessuale o politico: per molta gente questa roba è ancora off limits.


Danny Brown ha un approccio hardcore riguardo ai contenuti dei suoi pezzi
Mi ricordo ancora la prima volta che ho sentito la voce di Danny rappare “I’m the black Brad Pitt / the black Brad Pitt / all these bitches on my dick, I’m the black Brad Pitt”. Era il 2012 e la sua voce nasale si conosceva ancora poco. Più che hardcore si è sempre definito senza filtri, diretto, senza i proverbiali peli sulla lingua. «Ci sono cose che scrivo per risultare divertente, altre invece per fare brutto o comunque apparire stiloso. L’hip hop di norma serve a sembrare cool. Ma più diventi grande e più capisci cosa vuoi scrivere e comunicare al mondo. Ora penso molto di più al messaggio rispetto a prima».
Poi è ovvio che ancora oggi Danny firma album musicalmente con basi e invenzioni strumentali davvero nuove, ma dal contenuto pur sempre cazzaro. È il caso di Scaring The Hoes. «Quello è semplicemente il risultato di due amici che si divertono».
Danny Brown: genealogia di Quaranta
Diverso è il caso di Quaranta, dove non serve di certo Danny a confermarlo per capire che è il suo album dove mette più a nudo gli angoli bui e le backdoor della sua psiche. Scritto dopo il 2020, in piena pandemia, nel titolo stesso Danny gioca radice comune del numero 40, la sua età di allora, e di quarantena, una parola che oggi un po’ tutti per il trauma globale abbiamo voluto rimuovere dal vocabolario quotidiano. «È in quei mesi che ho toccato il fondo della mia vita, soprattutto per via delle mie varie dipendenze. Non stavo più facendo nulla, stavo spiralizzando in un vortice di depressione e cattivi pensieri. Mi svegliavo e non facevo altro se non drogarmi. Così a una certa ho pensato che fosse meglio mettermi a scrivere pezzi».
Il disco si apre con la title track, un contenitore zuppo di reference che vanno dal western al soul. Qui, il nostro esordisce nella strofa con una frase lapidaria: “This rap shit done saved my life / And fucked it up at the same time”. «Se non avessi avuto l’hip hop sarei in carcere a quest’ora. O forse sarebbe meglio dire che sarei ancora in carcere, visto che ci sono stato nel 2007, quando avevo tipo 26 anni. È stato semplicemente il culmine delle scelte che ho fatto da teenager».
Danny Brown e i natali a Detroit
C’è poi il fatto di nascere e crescere in una città come Detroit, dilaniata da un presente che è solo lo spettro di un fiorente passato industriale dove tutto, dalle auto ai 45 giri della Motown, veniva sfornato secondo un’efficiente catena fordiana. «Forse, se fossi nato in una città più grandi, con un’industria dell’entertainment più avanzata, avrei firmato molto prima un contratto discografico. Ho dovuto lasciare Detroit e andare a New York per cominciare a farmi un nome nella mia città. È paradossale».
Lo sguardo di Mr. Brown fin da subito si è spinto ben oltre i confini del Michigan e degli States in generale. Sin da subito, da quando non era cool, una delle sue grandi passioni è stata il grime. Un prodotto che nei primi anni Duemila, quando più o meno si è originato nei sobborghi londinesi, era un prodotto di nicchia per pochi. Figuriamoci se stavi dall’altra parte dell’oceano. «Dizzee Rascal è sempre stato uno dei miei rapper preferiti. Parlava di strada, non di party e cose del genere. Noi ci rivedevamo tanto in queste cose, non ascoltavamo di certo i rapper da classifica perché neanche noi avevamo la possibilità di andare alle feste e nei club. Era il 2003».
Warp Records – l’etichetta che pubblica i lavori di Danny Brown, la stessa di Aphex Twin e i Boards of Canada
L’attuale etichetta che pubblica i lavori di Danny, la stessa Warp Records di Aphex Twin o i Boards of Canada, è inglese. Così come è inglese la classifica RnB dove Quaranta si è posizionato alla prima posizione quando è uscito. Insomma, dev’esserci un qualche legame potente tra il rapper e il Regno Unito. «Sono sempre stato influenzato dalla musica inglese» racconta, seduto al tavolo con due cellulari in mano. «Prima avevo un contratto con la Fool’s Gold [etichetta del DJ canadese A-Trak con sede a New York, ndr] ma poi dopo un paio di meeting sono entrato in contatto con Warp. Mi è sembrato l’affare più vantaggioso che però allo stesso tempo mi lasciava la libertà di espandere la mia visione artistica in totale libertà. A Warp credono in me e mi supportano in ogni mia scelta musicale. Avrei potuto firmare accordi molto più sostanziosi con Nas, che è il mio rapper preferito, o con Mass Appeal [etichetta e media company di New York, ndr]. Ma a me e al mio management è sembrata la strada giusta quella di Warp».
Libertà artistica prima di tutto: poi, se c’è da farci anche dei quattrini, ben venga. «Ma occorre anche farsi consigliare nelle scelte di curatela artistica. Non posso prendermi il merito di tutto ciò che ho fatto finora. E non lo farò».
Claudio Biazzetti

