Shepard Fairey e 35 anni di carriera controversa. Rifiuta l’etichetta di street artist, preferisce essere chiamato populista. Tra attivismo, denunce, Obama e un brand di abbigliamento
Obey – Shepard Fairey: la street art per Barack Obama e Kamala Harris
Stati Uniti, 2008. Il Paese è invaso da poster di Barack Obama con la scritta Hope – Speranza. L’immagine in rosso, beige e blu, a richiamare la bandiera a stelle e strisce, è ovunque. Notiziari, blog, i primi social media. C’è chi crede sia parte della campagna elettorale in vista del voto di quel novembre. Non è così: è una chiamata all’azione di Shepard Fairey, in arte Obey. Sedici anni dopo torna a chiedere al popolo americano di votare. Questa volta sui suoi poster c’è Kamala Harris, che il 5 novembre se la vedrà alle urne con Donald Trump, in circa di un nuovo mandato. Forward – Avanti – è la scritta che campeggia sotto il mezzo busto della candidata a Washington.
Il primo murales di Obey in Italia
Anche a Milano, al quartiere Gallaratese, da qualche mese è sbucato un murales di Fairey, il primo in Italia. Su un lato di un edificio di residenze comunali in via Adolfo Consolini 26 la scritta Peace incorona il mezzo volto di una donna con l’hijāb. Dal suo occhio cade un’enorme lacrima. All’interno una fiamma e il più immediato dei simboli di pace – una colomba bianca. Sopra c’è una fiamma gialla. Blu e rosso gli altri colori. Insieme fanno i colori della bandiera russa e di quella ucraina. Tear Flame Peace – il nome del murales – è un appello alla pace in Ucraina e a Gaza.
Negli stessi giorni in cui Fairey completava l’opera – come parte del progetto MANIFESTIVAL – alla Fabbrica del Vapore inaugurava la sua prima mostra monografica in Italia, Obey: The Art of Shepard Fairey, aperta fino al 27 ottobre. Una retrospettiva di 35 anni di carriera, divisa in cinque aree tematiche. Propaganda, ambiente, pace e giustizia, musica, nuove opere. Serigrafie, stencil, collage taglia-incolla. Colori minimalisti, ispirati alle Avanguardie e al Costruttivismo russo, ad Alexander Rodchenko e ai fratelli Stenberg. C’è chi lo chiama street artist. Etichetta respinta: «Io uso le strade perché è un modo per connettersi con le persone più egualitario di altri tipi di arte. Non è però l’unico: l’arte è nei videogame, nei vestiti che indossi. Mi considero un artista populista».
Obey e la fenomenologia della filosofia di Heidegger
Fairey inizia a giocare con l’arte nella prima metà degli anni ’80, applicando i suoi disegni su t-shirt e skateboard. Lo spartiacque è il 1989, quando ancora studiava a alla Rhode Island School of Design di Providence. La città si riempie di sticker con il mezzo busto del wrestler André the Giant, 235 kg di peso. La comunità di skater e di artisti di strada di tutto il Paese lo replica altrove. È un’invasione. Una seconda versione dello sticker è accompagnata dalla scritta Obey Giant. È un omaggio al film They Live di John Carpenter (1988), dove un operaio disoccupato da poco trapiantato a Los Angeles viene in possesso di un paio di occhiali neri che, se indossati, svelano una realtà alternativa: molti esseri umani sono alieni. Cercano di condizionare la popolazione con messaggi subliminali nascosti ovunque: Conform, Stay Asleep, Obey. Conformatevi, Restate addormentati, Ubbidite. ‘Questo è il tuo Dio’, si legge sulle banconote. In un manifesto di due anni dopo, Fairey collega lo sticker – poi diventato l’icona del suo marchio di abbigliamento Obey clothing, fondato nel 2001 – al concetto di fenomenologia nella filosofia di Heidegger. «L’analogia tiene anche oggi, ma nel 1990 le cose erano molto diverse. Internet non esisteva. Vedere un’immagine disturbante senza spiegazione in uno spazio pubblico induceva le persone a porsi delle domande. Perché è qui? Che cos’è? È un processo che può essere molto potente. Adesso basta mettere un’immagine o una parola in una barra di ricerca Google e non si deve più pensare a nulla. È chiaro che non è così al 100%, ma è innegabile che in generale ci siamo impigriti. È un peccato: il rigore intellettuale è molto importante».
I lavori per grandi aziende e le controversie – le accuse di vandalismo e di plagio
Gli anni seguenti portano Fairey a San Diego. Nel 1998 Mozilla lo chiama per disegnare un nuovo logo. La scelta ricade sul T-rex rosso che ancora oggi molti ricordano. Con lo studio BLK/MRKT Inc. fino al 2003 cura le campagne marketing di marchi come Pepsi e Hasbro. Insieme alla moglie fonda poi l’agenzia Studio Number One, ancora attiva. Tra i clienti Disney, Netflix, Google, Nike, Paramount, Warner Bros, Coca Cola, Adidas, Bacardi. La stessa agenzia ha disegnato le cover di alcuni album, da Monkey Business per The Black Eyed Peas a Mothership dei Led Zeppelin. Qualcuno lo critica per le sue avventure imprenditoriali, a partire da Obey Clothing. Si dice sia troppo ‘dentro il sistema’ per un artista che nasce in strada. Raggiungere le masse e veicolare i suoi ideali al numero maggiore di persone possibile è stato però da subito il suo obiettivo. Qualunque fosse il mezzo. Non lo si può relegare a un fantoccio venduto per i soldi, come dicono suoi critici. Per la sua attività in strada è stato più volte arrestato per vandalismo. Nel 2011 è stato assalito da due persone a Copenaghen, al grido di «Tornatene in America». Per aver ripreso immagini già esistenti spesso è stato accusato di plagio. Poi è stato lui a rivolgere le stesse critiche ad altri artisti che avevano ripreso il suo lavoro. Resta una personalità ruvida.

Fairey sulle guerre in Ucraina e a Gaza – «Meglio Biden che Trump»
Nato nel 1970 a Charleston, South Carolina, Fairey ha sempre fatto del pacifismo un suo cavallo di battaglia. Segue con attenzione i conflitti in corso: «Penso che da parte degli Stati Uniti ci sia un doppio standard rispetto a Gaza e all’Ucraina. Da un lato continuiamo a dire che supportiamo Israele, dall’altro che non vogliamo vedere violazioni dei diritti umani e morti di civili in Palestina. Non va bene: dovremmo legare il nostro supporto a Israele a una gestione del conflitto che sia più moralmente giustificabile sulla Striscia. La risposta israeliana all’attentato di Hamas del 7 ottobre è estrema, per quanto siamo tutti d’accordo che quanto successo sia terribile. Troppe persone innocenti continuano a morire. Va avanti ormai da troppo tempo».
La riflessione sulla posizione di Washington nelle guerre in corso si intreccia con quella sulle elezioni del prossimo novembre. «Non sono d’accordo con l’approccio che è stato di Biden e del partito democratico sulla guerra in Medio Oriente. Ma Trump sarebbe molto peggio dei dem. La politica va guardata a metà tra idealismo e pragmatismo».
I problemi dell’ala progressista dei democratici Usa
Quando è stata fatta questa intervista, Biden non si era ancora ritirato dalla corsa per la presidenza dopo aver perso il primo dibattito televisivo contro Trump. Kamala Harris non era ancora la candidata dei democratici. Alla fine l’appoggio di Fairey è arrivato, ma fino a poco tempo fa non faceva il suo nome quando parlava della necessità di un deciso cambio di passo per i democratici. «Il partito – diceva – ha bisogno di sangue giovane. Le alternative ci sono. Penso ad Hakeem Jeffries, il leader della minoranza dem. È progressista e allo stesso tempo riesce a comunicare in modo comprensibile a tutta l’America. E da noi, come in altri Paesi, la comunicazione insieme al carisma è tutto. Sarebbe bello se le persone guardassero alle cose più in profondità, ma questa è la realtà e al momento capacità comunicative e carisma sono quelle che mancano al vertice del partito democratico». Fairey parla di politica con disincanto:«Sono un progressista, vorrei che le cose fossero diverse da adesso. Però è innegabile che ci sia una sorta di tendenza a conservare lo status quo. Per questo preferisco prendere un pochino di progresso ed esserne felice piuttosto che retrocedere. Ed è proprio verso la regressione che stanno andando i repubblicani. Penso che tutti debbano essere consapevoli del proprio ruolo nel sistema esistente e guardare a come farlo evolvere verso una versione migliore invece che puntare i piedi: i progressisti più scontenti tra i dem se non ammorbidiranno le loro posizioni lasceranno tutto nelle mani dei repubblicani».
Razzismo, nazionalismo e Donald Trump
Fairey, che ora vive a Los Angeles, a progetti più imprenditoriali ha sempre continuato ad affiancare murales politicizzati – come quello di Nelson Mandela a Johannesburg – e a lavorare insieme ad associazioni per progetti sociali. Si va dalla difesa dei diritti della comunità LGBTQIA+ e quelli dei senza tetto d’America alla protesta per il cambiamento ambientale e ai movimenti del Black Lives Matter. Con lui si torna sempre a parlare di politica. Riflette sulla sua città natale, Charleston, che sta vedendo la popolazione nera spinta sempre più verso i margini, tra razzismo e gentrificazione. «Charleston è metà bianca e metà nera, da sempre. Storicamente la popolazione nera è la meno abbiente. Purtroppo niente è cambiato. È il risultato di anni e anni di razzismo. Da un lato ci sono stati dei progressi, dall’altro la situazione sta peggiorando. Ci sono persone come Trump, che sta peggiorando la situazione in tutto il Paese, e ci sono altre persone che combattono ancora più di prima per l’uguaglianza: hanno capito che il pericolo oggi è peggiore di prima. Questo sta esacerbando le divisioni politiche. Un tempo era pensiero comune che tutti dovessero aver accesso al sogno americano. Adesso c’è chi dice che gli immigrati non sono veri americani, che non meritano gli stessi diritti. Trump ha cambiato la cultura dei repubblicani e ci vorranno anni per sistemare il danno che ha fatto».
Trump vincerà le elezioni? Fairey non si sbilancia: «Non so se sarà lui il prossimo presidente. Quando ha vinto nel 2016 non pensavo che fosse possibile. Poi però ha vinto. Mi devastava il pensiero di dover dividere gli Stati Uniti con le persone che lo hanno votato. Arrabbiate, ignoranti. Ai tempi non pensavo fosse possibile. Ora so che lo è”. Il problema non è però solo americano. Basta vedere la crescita dei partiti nazionalisti di destra alle ultime elezioni europee. “Penso che i social media abbiano creato una pigrizia nelle persone per cui è più facile proiettare in loro emozioni potenti di odio e sfiducia. La figura del migrante fa paura, ma ogni Paese del mondo è sempre in costante mescolanza con culture che non sono nate lì. L’idea di come dovrebbero essere la vera Italia o i veri Stati Uniti è una trovata stupida che i politici usano per manipolare le persone. E molte ci cascano».
Shepard Fairey
Frank Shepard Fairey – in arte Obey – è nato il 15 febbraio 1970 a Charleston, Carolina del Sud, figlio di un medico e di un agente immobiliare. Da poco ha inaugurato a Milano il suo primo murales in Italia, nell’ambito del MANIFESTIVAL, promosso da Fondazione Arrigo e Pia Pini e supportato da Orticanoodles e Wit Design. Alla Fabbrica del Vapore fino al 27 ottobre 2024 è aperta la sua prima monografica italiana, curata dall’artista e da Wunderkammern