A novembre, il regista inglese festeggia 87 anni con l’uscita de Il Gladiatore II, la prova inconfutabile di un’anima iper-prolifica e longeva – ma è sempre stato tutto oro quello che ha firmato?
Ridley Scott: un debutto tardivo ma iconico con The Duellists
Nel 1977, The Duellists, il primo lungometraggio diretto da Ridley Scott, viene nominato alla Palma d’Oro e vince il premio come miglior film di debutto. Scott ha quarant’anni. Un’età che in effetti stona un pochino con la parola “debutto”. Il fatto però è che fino a quel momento, uno degli registi più osannati nel mondo di oggi è “soltanto” un regista pubblicitario.
L’idea di fare un film tutto suo, anziché piccoli spot di 30 secondi, gli viene dieci anni prima, quando è ancora trentenne. Ma la prospettiva di arrischiare una carriera incerta in un mondo mediamente meno redditizio della pubblicità lo fa desistere. Lui stesso è il primo a dirlo nelle interviste: tra gli anni Sessanta e il decennio dopo, la Ridley Scott Associates (fondata insieme al fratello minore Tony) è una mietitrebbia che raccoglie centinaia di migliaia di sterline. Che oggi sarebbero milioni.
Scott, insieme al fratello e a un ristretto manipolo di altri visionari come Alan Parker e Adrian Lyne, forma un’élite di direttori che, prima, domina la televisione inglese fino a buona parte degli anni Settanta. E poi, grazie ad Alien (1979) che fa da rompighiaccio, colonizza i colossal hollywoodiani nel decennio dopo.

Dal successo nella pubblicità alla conquista di Hollywood
La cricca di inglesi che si prende il fulcro del cinema americano si divide anche equamente i generi disponibili. Tony Scott si prende gli adrenalinici d’azione come Top Gun o Beverly Hills Cop II, Ridley (almeno per quanto riguarda gli Ottanta) va sulla fantascienza di Alien e Blade Runner, mentre gli ultimi due si spartiscono le pellicole pensate all’epoca per un target di pubblico più femminile. Parker infatti firma film cult come Fame e Lyne ci aggiunge un pizzico di eros con Nove Settimane e mezzo (e poi vabbè, Flashdance).
Tornando a Scott: è importante notare a questo punto diverse cose. La prima è che, anche dopo il successo come direttore di lungometraggi di culto, Ridley Scott non disdegnerà mai di ritornare agli spot, purché strapagato. Rimane negli annali il suo ingaggio da 900mila dollari da parte di Apple per lanciare nel 1984 il primo Macintosh: in un mondo grigio che è dominato dal conformismo, una voce dittatoriale come quella dell’omonimo romanzo di Orwell parla a una platea ormai anestetizzata dalla propaganda. Dal fondo della sala, una donna (l’atleta Anja Major) inseguita dai poliziotti corre con un martello in mano verso il megaschermo parlante. Arrivata davanti, scaglia il maglio contro quella che è la rappresentazione dell’allora strapotere della IBM sul mercato dei computer. Lo spot, mandato per la prima volta in onda nell’intervallo del XVIIIesimo Superbowl, si conclude con la scritta “On January 24th, Apple Computer will introduce Macintosh. And you’ll see why 1984 won’t be like 1984”.

La visione “dinamica” di Ridley Scott: la chiave della sua regia
C’è una parola che ricorre spessissimo nelle sue interviste, un concetto che per Sir Scott in particolare è fondamentale: la dinamica. Tutto ciò che non ce l’ha, annoia lo spettatore. E per uno che ha costruito la prima metà della sua vita e carriera sul tenere alta l’attenzione delle persone, seppur per un minuto di pubblicità, questa cosa vuol dire tutto. Ridley Scott è un anticipatore dei tempi, soprattutto quelli di span di attenzione a cui siamo abituati ormai nell’era dei reel e dei TikTok. Sarà forse anche per questo che molti dei suoi primi film, oggi considerati pietre miliari della cinematografia, sono stati dei mezzi flop al botteghino, al momento dell’uscita. Solo dopo, con gli anni, sono poi diventati cult.
L’esordio con The Duellists, la storia di due ufficiali napoleonici che per un motivo futile si ritrovano a sfidarsi per il resto della loro vita, di fatto è un successo di critica ma non di pubblico. Lo stesso Blade Runner, difficile immaginarlo, al netto di un budget di produzione di 30 milioni, ne incassa solo 41, che per un colossal sci-fi degli anni Ottanta equivale a un mezzo disastro.
Evidentemente, questo manifesto della “dinamica” sulle prime non è compatibile con una società ancora poco alienata dalla vita digitale, una mente collettiva che può ancora permettersi di apprezzare la leggendaria lentezza kubrickiana di 2001: Odissea nello spazio. Poco male perché, tra questa lista di pregi e difetti fatta ad articolo, c’è sicuramente un’indole poco schizzinosa, che è stata proprio il segreto del suo successo ma soprattutto della sua longevità artistica (e forse anche biologica).
Ridley Scott è un businessman con l’anima d’artista in un mondo dove di norma regna il contrario. Non ha mai fatto segreto del suo lato imprenditoriale, e almeno questo dobbiamo apprezzarlo. Nel vangelo del nostro regista, per fare soldi ci vuole arte e per fare arte ci vogliono soldi. Mettici in più una visione sempre netta e chiara del progetto e il prototipo del perfetto regista del 21esimo secolo è fatto.

Alien e Blade Runner: il contributo di Ridley Scott alla fantascienza
Dopo il trionfo da esordiente a Cannes, nel 1978 per qualche folle motivo gli viene proposto di dirigere un horror fantascientifico, quello che conosciamo con il nome di Alien. Ma perché proprio lui, uno che aveva appena girato come primo film una storia napoleonica? Perché, come ha confidato all’Hollywood Reporter, nonostante la mancanza di profondità della trama, «Ho pensato che lo scritto avesse un meccanismo incredibilmente buono. Era tipo “E poi, e poi, poi” E poi sono arrivato a una pagina che dice: “E poi questa cosa esce dal petto dell’uomo” E lì ho pensato ‘È questo che ha fatto rinunciare al film quattro registi’ Perché io ero il quinto della lista».
Tanta determinazione e poco snobismo: una combinazione che però, dall’altro lato della medaglia, ha portato facilmente a film proprio brutti, che erano brutti allora e che oggi sono bruttissimi e invecchiati pure male. E che non sono neanche lodabili dal punto di vista del set design o dei costumi (che sia fedeltà alla moda dell’epoca in Napoleon oppure vero e proprio link con l’alta moda in House of Gucci), due elementi a cui RS ha sempre dedicato un occhio di riguardo.

Tra successi e flop: il lato imprenditoriale di Ridley Scott
Parlo di titoli imbarazzanti come Legend (1985), una storia fantasy filmata con un filtro da telenovela sudamericana che sembra la parodia del genere fantasy. Quindi, cavalli bianchi a cui è stato attaccato un corno che si aggirano in foreste fintissime mentre un giovane, imbarazzantissimo Tom Cruise cerca di salvare la sua bella e l’intera terra fatata dai goblin cattivi. Per un cultore del fantasy, Legend è letteralmente un pugno sotto la cintura.
Il punto più basso tuttavia si raggiunge in Black Rain (1989). Qui, a parte il machismo di un poliziesco che parla di Yakuza ed è girato tra New York e Tokyo, il problema insormontabile è che il protagonista, il detective interpretato da Michael Douglas, chiama “Charlie” ogni persona asiatica a cui rivolge la parola. Dove “Charlie” era il nomignolo che gli americani avevano affibbiato ai vietcong quando hanno invaso il Vietnam. Per cui, al secondo “Charlie” iper-razzista che senti nel film, chiudi la finestra del browser e ne apri un’altra in cerca di qualcos’altro da guardare.

Ridley Scott oggi: dalla saga di Alien a Il Gladiatore II
Ad agosto è uscito Alien: Romulus, nuovo capitolo della saga non diretto ma comunque prodotto dal suo creatore. A novembre, invece, proprio quando il Sir spegnerà 87 candeline, uscirà Il Gladiatore II, la sua ultima creazione. Ultima in ordine cronologico ma non assoluto. L’anima stakanovista di un regista con la schiettezza e la fame della working class inglese del Dopoguerra non sembra aver contemplato l’opzione della pensione.
Chiaro, quando hai una sindrome iper-produttiva come la sua, per la famosa legge dei grandi numeri, a volte la qualità viene fatta passare in secondo piano rispetto alla quantità. Per un Blade Runner gli si perdonano anche tre o quattro Black Rain, questo è il punto. A parte Ennio Morricone, non riesco a trovare nel cinema un’altra figura così prolifica e longeva allo stesso tempo. Come ha fatto notare il Guardian, Martin Scorsese è più giovane di cinque anni rispetto a Scott. Ma mentre il primo nelle ultime interviste torna più volte sul tema della morte, il secondo riempie di insulti ai francesi e racconti allucinanti sui babbuini le chiacchierate coi giornalisti. E poi «Beh, da quando [Scorsese] ha iniziato Killers of the Flower Moon io ho fatto quattro film nel frattempo». Giusto un filo competitivo, pure.