Moda, Creatività, Sostenibilità: le parole di Trump daranno forse una scossa a un’industria che ancora non vuole impegnarsi in una manifattura di fibre naturali, senza plastica
Trump e le nuove trivelle, le emissioni – la reazione e la parola sostenibilità
We have more coal than anybody – dice Trump. Nuove trivelle sono agli ordini di acquisto. Dalle viscere della terra americana, oltre al petrolio, potrà emergere qualcosa di buono? Di fronte a questa nuova grevità americana, potrebbe nascere una reazione di contrasto. Non solo indignazione. Davanti alle dichiarazioni di Trump sul clima, prima ancora di vederne le esecuzioni operative, per reazione si potrebbe percepire quello che i documenti delle grandi assemblee, dall’ONU alle COP, non ottengono: una sveglia, una scossa. Quelli che si annoiano ascoltando discorsi sulle emissioni, sull’innalzamento delle temperature, senza entrarne nel merito: di fronte allo sberleffo, speriamo alzeranno il ciglio. Forse. Forse è la volta buona che la parola sostenibilità torni ad avere un valore, invece che restarsene lì ad ammuffire, termine abusato, svuotato, ridicolizzato e concluso. Potrebbe essere la volta buona che tanti tra quelli che se ne dicono interessati solo perché devono, inizieranno ad attivare cellule grige – o almeno: quelle poche cellule non ancora assuefatte dallo scrollo dei video sui Instagram o Tik Tok.
La sostenibilità costa. Produrre nel rispetto delle materie prime, con energie da fonte rinnovabile, in una dimensione circolare, limitando plastiche e sintetici – costa di più che produrre fregandosene, quando la regola è massima resa minima spesa. Diversamente: una produzione sostenibile rilascia quantità minori per valori maggiori. La sintesi della sostenibilità è una soltanto, ed è davvero inutile girarci intorno: consumare di meno. L’impegno è la lotta la consumismo. Bisogna comprare di meno, mangiare di meno, possedere di meno. Tutto di meno – ma tutto meglio.
La sostenibilità costa; l’industria della moda, il nero e il grigio antracite del biochar
La sostenibilità costa, sì. Il settore del lusso dovrebbe essere il primo a potersela permettere, per i margini che le brand equity consentono. Il settore del lusso è codificato dall’industria della moda che ne definisce l’immagine e l’azzardo propulsivo. Mi permetto di chiedere attenzione: non la moda, ma l’industria della moda. L’industria della moda non è l’industria tessile, la manifattura, la sartoria. L’industria della moda è l’insieme di talenti creativi che si alimentano in rapporti reciproci e reattivi: designer, fotografi, agenti, editori. L’industria della moda è quella che dice all’industria tessile, alla manifattura e alla sartoria, che cosa produrre. È l’industria della moda la responsabile, la colpevole: se i designer continuano a mandare in sfilata abiti neri, su pelle nera, i cui drappeggi per esistere devono essere realizzati con viscose e poliestere – la catena produttiva esegue. La colpa è dei talenti creativi.
Parliamo di nero. Tutti ci sentiamo a nostro agio vestiti di nero, soprattutto di inverno, soprattutto di sera. A prescindere dalla disponibilità di ogni portafoglio, da Oriente a Occidente, con facilità siamo vestiti di nero. Basterebbe che l’industria della moda, invece che persistere e insistere a mostrare un’immagine di un tessuto nero totale e compatto, scegliesse quella di un tessuto grigio scuro, anche molto scuro. Antracite, con dentro una sfumatura, una gradazione: questo grigio antracite si può produrre con biochar. Si può ottenere con pigmenti naturali senza solventi chimici, senza reagenti e sostanze acriliche. Chi può avere il ruolo di veicolare sul pubblico il desiderio di un colore sfumato invece che compatto, se non gli stilisti delle grandi case? Gli stilisti dove trovano la loro ispirazione? Dagli editori. Gli editori con chi producono le immagini che pubblicano? Con i fotografi. I fotografi con chi elaborano l’immagine che devono scattare? Con gli stylist. Così discorrendo: l’industria della moda. L’industria della moda deve spingersi e sfidarsi in una creatività coerente a questi anni presenti e futuri: senza plastica, senza chimica.
L’industria della moda, la cultura della sostenibilità – contro i tessuti sintetici
L’industria della moda si presenta culturalmente impegnata; genericamente, l’industria della moda non sta dalla parte di Trump; – eppure, molti tra gli esponenti dell’industria della moda, quando si usa la parola sostenibilità, si annoiano. Non ci credono, dicono non sia affar loro – non ci credono, anche quando dicono il contrario. Molti tra gli esponenti dell’industria della moda lavorano per grandi aziende e mandano in scena una sfilata dopo l’altra: capi in pelle nera, chiffon come veli, tessuti sintetici, colori acrilici. La comunicazione di queste aziende promette intanto attenzione al riciclo, alla finezza della fibra di lana, quanto altro. Il risultato può apparire ovvio: le grandi aziende di moda non sono credibili e il pubblico non ne trova più un interesse. In altre parole, i fatturati scendono.
Il settore del lusso in Cina – come la moda potrà uscire da questa crisi?
Marco De Benedetti è il vicepresidente di Moncler: mostrava una tabella che riportava i risultato di una lista di marchi, molti tra quelli del settore del lusso, a dicembre in Cina: erano tutti in rosso. In Cina, i dipendenti statali hanno il divieto di possedere un Iphone. Da anni ormai, l’educazione civile e una sorta di sottile propaganda governativa, sospinge il popolo cinese a scegliere prodotti nazionali. Sei un buon cinese se compri cinese – vestiti, elettronica, quanto altro. I marchi del lusso europeo sono finanziariamente esposti in Cina, sia per retail sia per marketing.
La situazione attuale non è la prima caduta: agli inizi degli anni Duemila, quando fu introdotta in Cina la prima legge antiriciclaggio, i fatturati dei brand europei crollarono del 20 per cento. Il monito non servì: i manager continuavano a cercare solo il profitto a breve termine. D’altra parte, lo leggevano sul proprio contratto di assunzione: il manager è arruolato e valutato per un risultato da portare nell’anno, al massimo nel triennio. Non può pensare a lungo termine come hanno fatto gli imprenditori proprietari che il marchio hanno creato. Il mondo del lusso è in mano alla finanza e ai manager nominati dalla finanza – non più ai proprietari. In considerazione di ciò si può osservare come i dati finanziari positivi sono ottenuti da quelle aziende dove la famiglia è ancora a capo del brand – Hermès, Cucinelli, Prada – mentre nei conglomerati multinazionali e finanziari i dati sono problematici.
Come la moda potrà uscire da questa crisi? Generalmente, gli esponenti della generazione di Marco De Benedetti che ritengono posizioni di potere decisionale come Marco De Benedetti, sono propriamente Boomer – ovvero, persone che ragionano solo sul profitto e che appunto al solo sentire la parola sostenibilità rispondono con lo sbadiglio. Marco De Benedetti ha rotto lo stereotipo: ha risposto che la soluzione per la moda è la creatività, l’avanguardia e la sperimentazione sostenibile.
Moda, sostenibilità, creatività – niente plastica, solo fibre naturali – niente coolness
Se la creatività è costretta in un recinto, se la creatività si deve sforzare dentro limiti, paletti, invece che espandersi in ampiezza, scaverà in profondità o si alzerà verticale. Se la creatività è inarrestabile per definizione, quando è incanalata in una conduttura, acquisirà forza. L’industria della moda si deve dare questo ritegno, questa dignità di rigore e regole.
Lo scrivevo poco sopra, ma mi ripeto: solo fibre naturali. Niente plastica, niente colle sintetiche, niente chimica, niente imbottiture in poliuretano, niente colori forti. In questo contesto, la moda potrebbe tornare a essere propulsione economica, messaggio positivo e civile, locomotiva del lusso. Avamposto di cultura e di mercato – per poi diventare, come diceva Miranda Presley parlando di un sintetico color ceruleo – vocabolario popolare sulla massa che compra dagli scaffali.
Ancora: Marco De Benedetti raccontava di aver appena cambiato casa. Diceva di ricordarsi come, in una riunione con l’architetto durante il progetto, avesse chiesto a sua figlia adolescente come avrebbe desiderato la sua stanza: la figlia rispose che l’unica cosa che le importasse fosse la sostenibilità. Allo stesso tavolo, c’era Chiara Bazoli, arrivata accompagnata dal Sindaco di Milano. Sua figlia è in partenza per Madrid per gli studi, specializzandosi in gestioni sostenibili.
Un giorno e un volo di qualche ora dopo, attraversavo il patio de La Mamounia a Marrakech: sedute ai tavolini, bevendo tisane e bicchieri di champagne, si potevano contare giovani donne con borse firmate e camicie loggate. Gucci, Saint Laurent, Valentino. Molto trucco sul viso, i telefoni sul tavolo o quasi sempre in mano – per controllare lo schermo, scrollando, scrollando. Queste sono le clienti della moda oggi: sono spettatrici, in inglese: sono follower. Vogliono imitare la sofisticazione dell’industria della moda. Vogliono far parte di un mondo che immaginano – un mondo della moda che si crogiola nell’autocompiacimento – la tanto ripetuta coolness – ma che se non trova nuova sostanza e nuova dignità, scomparirà. Se non vorrà impegnarsi sulla sostenibilità, l’industria della moda si diluirà in una pozzanghera di rimmel e fango, caduto dal volto delle sue clienti.
Carlo Mazzoni












