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A Milano: il fastidio per Dsquared2, gli applausi per Fendi

A Milano ci sono due orbite che non si toccano: da una parte, lo sfarzo ridicolo con Dsquared2, Cavalli, Dolce & Gabbana – dall’altra, il rispetto e la coerenza con Fendi, Prada, Armani

Riviera sulla striscia di Gaza, la sfilata di Dsquared2, è offensivo il paragone a cui ci costringe l’algoritmo

Sul web girano le immagini di una striscia di Gaza trasformata in una riviera da Trump e Musk – e l’algoritmo ti porta a seguire un’uscita della sfilata di Dsquared2. Lo stesso stile, lo stesso sdegno. La stessa mancanza di rispetto. Perché il rispetto, prima di tutto, deve restare: per un territorio massacrato lungo i secoli, su cui nessuno dovrebbe permettersi di esprimersi senza piangere; per un momento storico in cui il ritornello di Drill Baby Drill non si ferma neanche davanti ai funerali della famiglia Bibas. 

Può sembrare offensivo paragonare la tragedia di Gaza, l’orrore, la pena e la commozione, il rancore e lo sdegno, con una sfilata celebrativa. Modelli in mutande, giubbotti di pelle inquinante. Non si possono paragonare e non si dovrebbero mai avvicinare – ma gli algoritmi di Meta lo fanno senza indugio. Migliaia di presone sono ipnotizzate per colpa dell’algoritmo, geolocalizzato a Milano. Che poi, della sfilata di Dsquared2, qui a Milano poco interessa. 

Solo fastidio. La moda è ancora così effimera? O forse è l’algoritmo a essere effimero? Quell’algoritmo che sta manipolando i neuroni dei ragazzi giovani che non sono ormai capaci neanche di fare le operazioni intellettuali più semplici, a cui non è richiesto più di studiare il latino perché è una perdita di tempo ed è più che sufficiente saper parlare in inglese. 

C’è il collage di Trump e Musk in spiaggia da riviera davanti al resort con dollari che piovono; poi c’è la sfilata di Dsquared2. Questo è il primo giorno delle sfilate a Milano. Milano, la mia città di sobrietà borghese, di imprenditoria seria, di gente laboriosa – a questo si riduce la sua immagine? Eppure. Eppure, ci sono persone che la pensano diversamente, persone per cui la cultura è un vanto e un orgoglio e un profitto – che da Dsqaured2 non vanno – ma dove vanno? Perché si nascondono? Perché non si fanno sentire?

L’inizio, la sfilata di Gucci, il sistema moda e la debolezza reputazionale e il percepito

Un inizio che non era un inizio. La sfilata di Gucci, poche settimane dopo la rottura con Sabato De Sarno. Non è dato sapere con quali termini ci sia stata la separazione. Buona uscita milionaria per Di Sarno – ma si percepisce un’altra onda di fastidio per tutto il sistema moda. Aver bruciato un talento senza dargli il tempo di esprimersi. Prendere una giovane mente, offrirgli la possibilità di un’intera esistenza e poi tagliargli le gambe. Questo è quello che le persone comuni, quelli che comprendono ma non stanno dentro il sistema, la base da cui arriva la maggior parte dei clienti per queste case, stanno dicendo. Populismo forse, le logiche aziendali sappiamo siano più complesse – ma bisogna in ogni caso rilevarlo. 

Si raccoglie nell’aria: una disillusione verso tutto il sistema moda, un sistema che oggi è diventato un’espressione finanziaria e non più creativa, senza codifica di sofisticazione alcuna, non più motore di ambizione, non più espressione di mecenatismo in pubblicità – ma puro fattore numerico, algoritmico. Gucci risorgerà – la casa vive nell’immaginario commerciale – ma è il sistema moda nel suo intero a vivere un momento di debolezza reputazionale, di imbruttimento percepito.

Il cafone anni Novanta in provincia: paillette, plastiche e sudore

A chi può interessare oggi, se non al cafone, una stampa pitonata o leopardata, zebrata? Non solo da Dsquared2 – che ho preso come capro espiatorio di un atteggiamento diffuso. Le uscite anni Novanta in provincia si contano in più di una presentazione – paillette, plastiche e stampe su tute sintetiche che solo a vederle odorano di sudore. La domanda è una soltanto: a cosa serve questo scherzo? Cosa ce ne frega ancora di Naomi Campbell? L’espressione di zero. 

Mentre scrivo parte di questo testo – ore 14.15 del 26 febbraio – in testa alla Home Page del Corriere della Sera, il titolo principale è Mosca, L’Europa incita Kiev a continuare il conflitto – subito a fianco, il video sulla nuova striscia di Gaza seconda Trump con un video in AI e sotto: Jannik Sinner e Chiara Ferragni protagonisti alla Milano Fashion Week. La Home Page del Corriere è uno dei luoghi più osservati – per impressioni – dagli italiani. La colpa non è solo dell’algoritmo delle tech americane, ma anche delle impostazioni direzionali date da Urbano Cairo. Chiara Ferragni da Dsquared2. Quello che vorrei far notare, è la parola moda – così abusata, così offesa, azzerata di ogni dignità. La moda sembra sinonimo di stupidità, neanche di più di vestiti e vanità – e pensare che da ragazzino io me ne ero innamorato, sicuro si trattasse di altro.

A Milano due orbite: quelli che urlano e quelli che lavorano

A Milano ci sono due orbite che non si toccano: due orbite in cui si esprimono atteggiamenti opposti: due orbite su cui gravitano tipologie diverse di persone. 

La prima orbita è quella di cui ho qui dato come casuale epitome Dsquared2. In questa orbita girano quelli che vogliono urlare, far vedere quanti soldi hanno da spendere, quanto bravo è il loro chirurgo plastico. Quelli che usano, usano, usano quanto devono senza preoccupazione. Che problema mai ci deve essere, se vendo e guadagno? Quelli che ancora pensano le gente si debba vestire per andare in discoteca. Dolce & Gabbana, Cavalli – addirittura Versace, che peccato vederne un tale disarmo. Si tratta di vestiti fatti con le fibre ad estrusione chimica, stampe psichedeliche, roba scintillante ovunque si possa, tutto pur di far vedere come le tette stanno su e come le natiche ballano a ritmo. Questo è il mondo del Grande Fratello, di Alfonso Signorini, di Barbara D’Urso, di Fabrizio Corona, di Fedez. Questa orbita, questa gente, umilia la cultura italiana e la cultura di Milano.

L’altra orbita è quella che compone l’identità di Milano. Una città che lavora, una città il cui snobismo è solo un’espressione di understatement. Il cui gusto si evolve sui disegni di Gardella, di Magistretti, dello Studio BBPR – la cui sapienza e speculazione intellettuale entrano sul funzionamento delle strutture – architettoniche, letterarie, intellettuali. Una città dove la moda è stata inventata come ready to wear. Un atteggiamento così radicato in questa terra che nella mostra Il Genio di Milano si fa risalire finanche a Federico Borromeo. Chi appartiene a questa orbita, rimane in silenzio mentre dall’altra parte urlano, gridano nei gironi infernali. 

La commozione per Fendi

Un poco di commozione, e di bellezza arriva da Fendi. La sfilata che è stata compresa da tutti, anche da quelli che poco vogliono entrare nel merito. Una sfilata che è riuscita a presentare un design nuovo, non solo uno styling, evolvendo le radici di cento anni di operazioni. La storia famigliare diventa il motore del brand – dal matriarcato che si succede per generazione, fino a due gemelli bambini che aprono il portone di domani. C’era tutta la sobrietà, la consistenza, la commozione e la generosità di cui la moda ha bisogno in questi mesi che stiamo vivendo.

In questi giorni di fine febbraio, arrivando da Roma e Milano, Fendi ha dato potere alle librerie storiche: la Libreria Bocca in Galleria Vittorio Emanuele, stanza intellettuale tra affitti milionari; la Hoepli, occupando un’intera vetrina e riscoprendo le assi in legno invecchiato, gli scaffali di una libreria che persiste da anni in un edificio razionalista. L’edicola di Largo Treves, di Fabrizio Prestinari, che quando ti parla sa riconoscere la tua personalità dalle riviste che ti piace sfogliare. E così ancora, dall’Adi Museum ai totem di Civic alla Darsena – Fendi ha girato la città e i suoi presidi culturali per marcare il suo centesimo anniversario. 

La coolness – o figaggine – non conta, se non c’è sostenibilità

In questa orbita di rispetto e rigore, ci sono Prada e Jil Sander. Anche qui, riferimenti di una coerenza che a Milano trova la sua catalisi, per Prada che vi è nata, per Jil Sander che vi è arrivata. La debolezza è nell’autocompiacimento della loro coolness. In italiano, figaggine – che va bene, l’abbiamo capita – ma siamo nel 2025, andiamo oltre. La domanda è sempre la stessa: la creatività oggi ha senso solo se lavora sulla sostenibilità. Non c’è più figaggine se non si spiega da davo arrivano le pellicce, che siano vere o di plastica. Non c’è più figaggine se si mescola ancora la plastica alle fibre naturali. Non c’è alcuna figaggine se continuiamo ad avere quei colori così chimici, così intensi che tanta è l’acqua sprecata che altro non si apprezza. 

Fuori dalla Fondazione Prada, per l’edilizia calmierata destinata agli studenti dopo le Olimpiadi, il budget è stato diminuito: le finestre rimpicciolite per ridurre il costo degli infissi. Sembra un carcere. Dov’è la figaggine? Tra le persone che sono invitate? Influencer troppo truccate – una volta da Prada non si vedevano – il cui lavoro è fare una storia su Meta, dando altri soldi a Zuckerberg così che meglio possa sostenere Trump?

Giorgio Armani in chiusura

Giorgio Armani. Sei lì, che sa che vedrai la stessa cosa – certo ben fatta – che hai visto l’anno scorso e l’anno prima. Come gli altri anni, gli occhi si placano – come se qui, a consolarti, qualcuno sapesse ripeterti: va tutto bene. La storia, non la moda, si muove a cicli – l’oro e il rosa, il senso del mercato. La coerenza di Giorgio Armani oggi ci fa bene al cuore. Il centro di questa orbita, questa seconda orbita che definisce la città di Milano, per la moda, è ancora Giorgio Armani. Ritrovi sì, nelle sue linee, quei tratti di architetture moderne che a Milano furono progettate da Gardella e dagli altri. Qui da Armani c’è l’identità, quello che Milano sa e può essere. Le ultime uscite di Armani: la musica cambia, rallenta. Le vedi passare, uno dopo l’altra, le sagome longilinee, melliflue, evanescenti – consistenti. Non te ne sei neanche accorto – una lacrima bastarda è arrivata al labbro.

Carlo Mazzoni

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