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Moda: le tre grandi case di Parigi – Hermès, Louis Vuitton, Chanel

Le tre grandi case, tra poteri finanziari, creatività, ed equilibrio. La moda e il settore del lusso attraversano una crisi reputazionale – ma Hermès, Vuitton e Chanel procedono indenni e più robusti che mai

Scrivere di moda: articoli, giornalisti. Accezione tecnica e accezione poetica

Scrivere di moda: scrivere abusando di aggettivi e pareri personali di stile; descrivere un poco di sartoria con qualche termine tecnico così da mostrarsi preparati; trascrivere cenni storici e riscrivere una battuta con la quale mascherare un gossip come notizia. Così sono gli articoli che appaiono sui quotidiani o blog, italiani e internazionali, firmati da giornalisti che si agitano e si eccitano quando salutano un personaggio famoso. Quando devono dare supporto a chi chiamano amico, crogiolandosi perché si sentono parte di un’élite.

Qui su Lampoon gli aggettivi sono vietati. Scrivere di moda, continuo a provarci. Scrivere stritolando, scorticando il cervello, cercando livelli di lettura che possano scuotere la curiosità di quelli che ridono: della moda non me ne frega niente. La moda, intesa nella sua accezione tecnica, è la codificazione di prodotti che aumentano le vendite nei mercati. Non solo vestiti – se per moda si intende la creazione di immagini commerciali che colpiscono la collettività evolvendosi in cultura popolare. La moda genera immagini per l’economia di massa. La moda, intesa invece nella sua accezione poetica, è la narrazione del tempo che scorre.

Le tre grandi case di Parigi: Hermès, Louis Vuitton, Chanel – tra fatturato e cultura, e la crisi della moda

Tre poteri. Hermès, Louis Vuitton, Chanel. Tre sfilate che non possono essere recensite considerando solo la creatività dei disegni che le hanno generate. Tre sfilate che devono essere osservate tramite la lente del potere economico e divulgativo che queste tre aziende operano. Colossi economici: qualcuno ne vede un limite: un’incombenza commerciale che toglie ossigeno alla creatività. Qualcun altro prova nostalgia, tornando ai tempi quando si trattava di belle donne, bei vestiti. Qualcun altro trova nei livelli di complicazione, una nuova ragione per continuare a ragionare su quanto, ogni stagione, le tre grandi case presentano al pubblico e al mercato.

Hermès, Louis Vuitton, Chanel. I primi per fatturato, i primi per forza commerciale, i primi per mecenatismo. Primi, per operazioni di branding. No, non si tratta di moda – si tratta di Parigi, di Francia – le tre case sono emblemi francesi, forse monumenti. L’Europa vende la manifattura e il lusso, l’America i servizi digitali. Qualsiasi cosa facciamo: vedere la televisione, fare la spesa, prendere un taxi, quando altro – lo facciamo oggi tramite una applicazione americana.  Non soltanto: i fondi finanziari europei comprano azioni alla borsa americana: l’Europa è il primo finanziatore estero dell’America. In cambio: l’Europa esporta e genera, manifattura, lusso, sogno, qualità di vita – si può usare la parola cultura? Europa è cultura, ma noi non lo sappiamo. Hermès, Louis Vuitton e Chanel: i primi tra marchi francesi per fatturato a miliardi di euro. Proprietà francesi.

La moda sta attraversando un momento di crisi forse più drammatico di altri recenti. Se da una parte, il desiderio della clientela si sta spostando sulle esperienze piuttosto che sul possesso – viaggi e benessere, piuttosto che vestiti e accessori – dall’altra parte, la reputazione del settore del lusso crolla sotto l’accusa di complicità a un consumismo che tutte le generazioni individuano come il peggiore dei mali. Tutto questo succede nonostante sia chiaro e ovvio – per analisti e studiosi di economia – quasi sia la soluzione: sostenibilità. Sì, quella sostenibilità che in troppi continuano, più o meno dichiaratamente, a liquidare con il pretesto della noia. 

A reazione di crisi e di ignavia, le tre grandi case francesi continuano procedere un’economia in crescita. 

Hermès, la terra e il cuoio, il fatturato 2024, le manifatture e la Fondation Hermès

Hermès trova la sua identità nel colore della terra scuro. Un marrone notturno che si mescola al nero. Terra fertile, bagnata, lavorata, umida. Muri circolari di fango si alzano su piani inclinati. Il nero marrone trova luce e riflesso, è cuoio. Un richiamo dell’elemento equestre, del nodo, della stringa. Non c’è niente di più complicato della semplicità – Hermès trova una suo codice per la moda – se la moda è moda, e non stile. 

La produzione di Hermès è dislocata in Francia: sono 23 manifatture artigianali sul territorio nazionale. Portare tutto in un unico polo produttivo, avrebbe ragione di efficienza e razionalità industriale – ma l’impegno a coltivare i distretti provinciali e le tradizioni regionali è prova di una solidità della strategia a lungo termine della casa. 

A febbraio, sono stati comunicati i dati finanziari di Hermès per il 2024: un fatturato complessivo di oltre 15 miliardi, con una crescita del 15% rispetto all’esercizio precedente; un utile netto a 4.6 miliardi di euro. Tutti i mercati in positivo. Una forza lavoro di oltre 25.000 impiegati, di cui 2,300 assunti nel 2024. È stato confermato un bonus di 4.500 euro all’inizio del 2025 per tutti i dipendenti. Da notare, la strategia di riduzione dei punti vendita, piuttosto che una crescita: i negozi sono scesi sotto i 300 indirizzi nel mondo. 

«Quando si è mecenati c’è il rischio di trasformarsi in attori non neutri», dice Olivier Fournier a Stefano Montefiori sulle pagine de La Lettura, lo storico inserto culturale del Corriere della Sera, rilasciando informazioni sulla Fondation Hermès, sugli interventi educativi e culturali per i quali sono stati disposti finanziamenti pari a 12 milioni all’anno per il quinquennio. Jean Louis Dumas diceva che bisogna essere droghieri e poeti, per intendere che i numeri devono entrare nel merito della fantasia.

Louis Vuitton e la famiglia Arnault; Nicolas Ghesquière e la moda intellettuale

Louis Vuitton sfila all’Etoile di Nord, edificio amministrativo, presso il complesso ferroviario della Gare du Nord. Un treno, una compagnia di viaggio – un romanzo di George Simenon. Per accedervi, non vi si poteva arrivare in autonomia – era necessario seguire il protocollo dettato da Louis Vuitton rispettando l’anticipo. Poco più di 400 posti per una sfilata che ottiene il riscontro mediatico di uno spettacolo da stadio. Brigitte Macron seduta tra Pietro Beccari e Bernard Arnault – tutta la famiglia Arnault. Tra le tre grandi case, Louis Vuitton è quella che più di altre vuole impersonificare il potere francese, un richiamo quasi monarchico: dal presidio culturale al Louvre a quello sportivo, con la vela e la Formula Uno. Una partnership con Pirelli – e per la prima volta, quella sera a Parigi, Giada Tronchetti Provera con sua figlia, Sofia Noseda. 

Il brand Louis Vuitton oggi è così radicato nell’immaginario comune, su layer diversi, che quasi la consistenza del disegno di Ghesquière rischia di essere data per scontata. Serve una sfilata, per restituire l’attenzione alla speculazione creativa, aggressiva nell’azzardo. Non si parla abbastanza, della moda intellettuale di Nicolas Ghesquière, forse inglobata in così tanto potere. Una moda intellettuale che disloca gli angoli, senza esagerare nei volumi, spingendo nelle geometrie. I bermuda si arricciano come se la pelle fosse lavorabile quando la seta. Il rosso è la rabbia di un tulipano che rompe ogni margherita. La grafica di un verde pantone. Le spalle quadrate, le borse come due macro-tasche diventano marsupi specchiati. C’è un disordine negli accostamenti voluti da Ghesquière che non è prevedibile: lascia un senso di amaro, per poi sottomettersi a una comprensione deduttiva, non analitica. Moda intellettuale che sì, stride con tanto potere economico. Moda intellettuale che entra in contrasto con l’esercizio di branding che Pharrell prosegue nell’uomo. Moda intellettuale, questa di Ghesquière, intesa come disegno specifico, storico e professionale. 

L’uscita trentatré è per David Bowie, grafiche anni Settanta bianche e azzurre come saette nella notte, pantaloni neri lucidi – le scarpe con bordature e tacco rosso, che se il media decidesse di spingere potrebbero diventare un oggetto culto per design applicato al piede. Il viso truccato, una maschera di colore. Il giorno dopo la sfilata, Louis Vuitton lancia un nuovo settore merceologico – la cosmesi. I profumi sono sul mercato da qualche anno, i trucchi sono una novità di adesso. Questione di fantasia, certo – applicata di nuovo alla finanza. I dati finanziari di Louis Vuitton non sono rilasciati se non nel contesto di quelli dell’intero gruppo LVMH. 

Chanel al Grand Palais: lo studio in attesa di Matthieu Blazy

Se per la sfilata di Louis Vuitton solo a pochi è stato possibile accedere, all’indomani mattina, l’affluenza al Grand Palais per Chanel è quella da accadimento universale. Tutto per Chanel appare celebrativo, esploso – come la volta in ferro e vetro sulla quale si staglia la riproduzione di un nastro di seta nera. La sfilata è il lavoro di uno studio creativo come già da qualche edizione – ma questa volta, c’è una considerazione diversa. 

L’annuncio dell’arrivo di Matthieu Blazy è stato dato a metà dello scorso dicembre, dopo l’ultima sfilata dei Métier d’Art. Questa di inizio marzo, è la prima sfilata di Chanel in cui lo studio conosce il lavoro di chi ne sta per prendere le redini. Il risultato è un lavoro più calmo, più consistente – per usare ancora una parola che in questo contesto di moda uso ripetere. Come a dire – sappiamo cosa succederà, prepariamo il tavolo, disponiamo tutto in ordine, nella migliore presentazione possibile.

Vittoria Ceretti apre, con un tweed nero a doppio petto. La riga in mezzo, il viso pulito – tutto a ristabilire l’equilibrio per una nuova partenza. Ogni uscita che segue è l’alfabeto di Chanel – le lettere sono scandite. Le magie sono riassettare. Spalancate le finestre per nuova aria. Non c’è alcuna tensione – solo equilibrio, sicurezza. I veli trasparenti sono patine, ragnatele d’argento – come a dire, è luce naturale. In attesa di elettricità.

Carlo Mazzoni

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