Gio Ponti, letter to Lisa Ponti, 1960
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Definizione di sostenibilità: una moda senza microplastiche

Diventa un luogo comune, per i buyer così come per alcuni manager, dire che la sostenibilità non vende – quando invece la sostenibilità non è in offerta. Tutta la moda si basa sul sintetico

La sostenibilità non vende, ai clienti non interessa

Buyer e Boomer ne sono convinti: «la sostenibilità non vende». I buyer, quelli che per generazione erano già professionisti negli anni Novanta, insistono: ai clienti non interessa. Dicono: tutti a parlare di sostenibilità, ma poi quando devono comprare, non la comprano. Ripetono: ai clienti non interessa. A clienti non interessa l’offerta sostenibile. 

Questo mi viene spiegato, durante una riunione con un buyer con anni di esperienza, oggi a capo di un concept store che ha sede in Italia e in Corea. Provo a domandare: che cosa c’è di sostenibile tra gli scaffali e i rastrelli? Qual è l’offerta sostenibile in negozio? Esiste qualche cosa di sostenibile, in vendita, che i clienti potrebbero forse comprare? Forse non è vero che ai clienti non interessa la sostenibilità. Semplicemente, non c’è niente di sostenibile che viene loro proposto.

Non esiste l’offerta, non esiste la sostenibilità nel prodotto

Dalle grandi aziende ai nuovi creativi, quando parlano di sostenibilità, parlano di fibra riciclata, di plastica rigenerata, di sostegno alla filiera, di diversità e inclusione nella forza lavoro. Parlano di sostenibilità presentando la riduzione degli scarti, la dismissione dell’energia da fonte fossile, l’implementazione di un welfare aziendale avveniristico. Tutto bene, certamente, grande ammirazione, inchino al progresso: ma non si arriva a indagare il prodotto che offrono. Quello che esce dai magazzini, è ancora confezionato in nylon e poliestere. 

Nessuno parla di concreta, reale, pragmatica sostenibilità nel prodotto che andrà in vendita – quando invece è necessario dare messaggi semplici e precisi, per rompere il muro. Qui la definizione: un prodotto tessile per essere sostenibile non deve rilasciare microplastiche. Chiaro e limpido così. 

Sugli scaffali del concept store di cui il buyer sopra, ci sono capi ultra-cool. Disegni grafici, azzardi: tutto nero, tutto elastico, tutto imbottito, tutto in pelle. Paillette di plastica, stampe fosforescenti. Questo, appare tra gli scaffali di uno tra i concept store più fighi a Milano. Va bene: Rick Owens, Duran Lantink, Alaia – tutti fighissimi. I temini, li scrivo in corsivo, per dare conto del senso ridicolo che producono. La mia amica, che ho sempre adorato, ha lanciato un nuovo brand di tute elasticizzate e stampate fluo – io non ne capisco il senso.

Definizione di sostenibilità: un prodotto tessile non deve rilasciare microplastiche

Lo ripeto: oggi, un prodotto tessile per essere sostenibile non deve rilasciare microplastiche. Ovvero: un prodotto tessile non deve essere realizzato con fibre sintetiche, con colle o con colori fissati tramite sostanze acriliche che durante il lavaggio si micro-frammentano e si disperdono. Se le fibre sintetiche sono riciclate, rischiano di frammentarsi con ancora più facilità. Se il nylon è rigenerato, ovvero se la sostanza viene sciolta e nuovamente estrusa in un filo, la fibra è solida – ma se un tessuto di nylon è aperto e sfilacciato per ottenere una fibra più o meno corta da rimandare in filatura, il risultato sarà un tessuto ancor meno stabile e più lacerabile. Un tessuto non deve rilasciare microplastiche: questa è l’unica definizione di sostenibilità nel tessile. Tra gli scaffali, non esiste. Se non esiste, nessuno può sceglierlo. La sostenibilità non vende perché la sostenibilità non esiste.

In produzione e manifattura, la creatività continua a usare le fibre sintetiche e le imbottiture in poliuretano, su tessiture elasticizzate; nylon e stampe fosforescenti; nero compatto. Sembra che la creatività, per potersi esprimere, non possa fare a meno di tutto questo. Nessun interesse a sforzarsi su sperimentazioni in fibre o colorazioni naturali, in monomateriale, soluzioni di taglio e cucito, o in maglieria che possano produrre effetti inediti, roba nuova. Tra gli scaffali, trovi pezzi in pelle nera, che per ottenere quella tonalità così compatta, sono stati usati litri di acqua. 

La pelle, scarto della filiera alimentare, dieta e carne rossa

La pelle. Un prodotto di scarto della catena alimentare. Se non fosse utilizzata dalla moda, la pelle di tutti gli animali macellati per la produzione di carne, andrebbe persa. Siamo in Italia: la Toscana da sola lavora il 25 per cento della pelle mondiale. L’industria conciaria in Italia, di cui il distretto Toscano è il centro propulsivo, lavora una tale quantità di materia prima tale da doverne importare dall’estero oltre il 90%. 

La filiera alimentare è a monte dell’industria conciaria. Dobbiamo diminuire il consumo di carne rossa – sia per la nostra salute, considerando che un consumo di carne rossa è un fattore cancerogeno per il nostro organismo, sia per l’ambiente, laddove gli allevamenti intensivi di bestiame sono tra i grandi colpevoli dell’inquinamento sistemico. In ogni supermercato ci sono scaffali lunghi metri dove è disposta un’eccessiva offerta di carne rossa – il vero e assoluto simbolo di consumismo, maledetto consumismo. Non ci sono né ma né se: dobbiamo ridurre la carne rossa nella nostra dieta. 

La pelle per il vestiario è il prodotto di scarto di questa produzione alimentare: una catena tra le peggiori nel sistema consumistico contemporaneo. Non si può definire la pelle sostenibile. O meglio, si potrebbe se fosse possibile dimostrare che la pelle proviene da un allevamento estensivo, ovvero se l’animale è allevato in campo aperto. Impossibile, in un sistema industriale, impossibile anche per il settore lusso. 

Construction Z, by László Moholy-Nagy
Construction Z, by László Moholy-Nagy

Un messaggio, per il settore del lusso: la tracciabilità e i fornitori

O forse no – per il lusso, sarebbe possibile? Non sarebbe impossibile. Per la moda, almeno, quantomeno, come messaggio. L’industria della moda si racconta tramite le sfilate: presentazioni spettacolo, dove va in scena un atteggiamento, una visione. Di quello che vediamo in una sfilata, la maggior parte procede in produzione industriale, ma non tutto. Il designer si concentra sull’idea, a volte non pensando a come produrla. Tocca al suo team, cercare di renderla possibile – parlando con i fornitori, cercandone anche di nuovi, supportandoli in innovazione. Una fase di ricerca, di azzardo creativo: il budget non è un argomento. I fornitori di tessuto sanno che gli studi creativi, per la sfilata, possono spendere anche centinaia di euro al metro – rimandando il problema a un secondo momento, quando bisognerà stabilire un costo che possa portare a un prezzo coerente. 

Le sfilate dovrebbero diventare un momento manifesto, una dichiarazione di intento, un urlo di messaggio. In teoria, le sfilate sono già previste in questo senso – ma il più delle volte, invece, si riducono a rassegne commerciali. Le grandi case di moda potrebbero mandare in sfilata un azzardo di un capo completamente sostenibile, anche uno solo su sessanta uscite: un capo realizzato con una pelle di cui sanno tracciare finanche la fattoria dove è stato allevato il bovino, verificandone l’allevamento in campo, la cura, e il rispetto della sua vita e della fine. Sembra utopico, forse fa pure sorridere: ma sarebbe un messaggio chiaro, semplice e onesto, che in tanti, forse tutti, saprebbero comprendere. Basterebbe una serie limitata, pezzi numerati – basterebbe solo il racconto, forse utile solo come marketing – ma indicherebbe una strada.

La canapa naturale italiana

Le grandi case di moda potrebbero realizzare qualche capo in fibre di canapa, coltivata, raccolta, lavorata in Italia – altro esempio. La canapa naturale, italiana, non è possibile, in produzione industriale – ma sarebbe un massaggio. Oggi non esiste canapa italiana – anche se l’Italia era la prima produttrice di canapa al mondo, nel secolo scorso. Gli stilisti potrebbero presentare capi bandiera, irrealizzabili oggi in industria, ma utili a segnare una via per il futuro. Si parla così spesso di capi unici, costosi, decine di migliaia di euro, a volte si chiama anche couture. 

Le colorazioni naturali. Le fibre di ginestra e orticate – ancora, la canapa – che oggi nessuno sa filare senza usare la chimica, che oggi nessuno fila più in Europa. La canapa è l’unica fibra tessile che si possa definire sostenibile. L’unica fibra naturale e vegetale, coltivabile in Italia. Nei primi anni del Duemila, Armani aveva finanziato un progetto di filiera di canapa – rimasto nella storia con il titolo di Baby Hemp, basandosi su una previsione contro ogni senso logico. L’intenzione di Armani era nobile, ma le persone che lo avevano illuso non erano preparate. Un caso simile, per Ferragamo, qualche anno dopo. L’anno scorso, a livello artigianale, Fendi è riuscito a produrre cinque Baguette in canapa naturale e italiana. Primi passi su strade nuove.

Carlo Mazzoni

Gio Ponti, letter to Lisa Ponti, 1960
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