A Londra, la mostra Cartier: A Century of Style and Influence: gioielli che racchiudono in sé alleanze politiche, economiche o dinastiche, e che diventano simboli
Un serpente di diamanti e la leggenda di Cartier
Nel 1968 la “Doña” si presenta nei saloni della Maison con un’idea: vuole un gioiello che sia più di un ornamento, un simbolo personale. Nasce uno dei pezzi più tecnicamente complessi e concettualmente potenti della gioielleria del XX secolo: il collier Serpente, in platino e smalti tricolori — omaggio alla bandiera messicana — un corpo di diamanti bianchi che si arrotola al collo come una creatura viva. Due anni di lavoro. 178 carati di pietre, vertebre in oro cesellate a mano. In questo oggetto si concentrano i codici che Cartier ha codificato, sovvertito e reinventato per oltre un secolo: tecnica al limite dell’arte, simbolismo colto, identità femminile affermata attraverso la bellezza.
Cartier: A Century of Style and Influence, ospitata fino al 16 novembre al Victoria and Albert Museum di Londra: curata da Helen Molesworth e Rachel Garrahan, con l’allestimento firmato da Asif Khan Studio, l’esposizione celebra la lunga traiettoria creativa della Maison fondata a Parigi da Louis-François Cartier nel 1847.
Cartier, generazione dopo generazione, intreccia idee e suggestioni, coglie impulsi artistici e vibrazioni culturali, esplora immaginari sovrapposti e mutevoli. Un laboratorio creativo in continua evoluzione, talvolta persino in rottura con le proprie tradizioni, che apre la strada a sperimentazioni inedite, rispondendo alle esigenze di una clientela fuori dal comune, costantemente alla ricerca del nuovo. L’approccio estetico e creativo è universale, così come il prestigio globale della Maison, soprattutto da quando tre nipoti del fondatore si lanciano alla conquista del mondo, aprendo le prime filiali internazionali.

Cartier tra Londra e New York: la Maison della gioielleria nelle corti reali, tra la Londra edoardiana e la società americana della Gilded Age
Nel 1902, Pierre Cartier apre una sede londinese al numero 4 di New Burlington Street, in occasione dell’incoronazione di Edoardo VII. La Maison diventa presto fornitore dell’aristocrazia, dei grandi borghesi, di banchieri e imprenditori, nonché della famiglia reale, durante l’età aurea dello chic edoardiano — celebrato oggi anche in una mostra alla King’s Gallery, all’apice dell’impero britannico.
Nel 1909 Jacques Cartier, il più giovane dei tre fratelli, prende le redini della sede americana. È l’inizio di una duratura alleanza con l’élite della società wasp, così come era accaduto per l’inventore dell’haute couture Charles Frederick Worth, due volte imparentato con la famiglia Cartier. A decretarne il successo sono i “400” di Caroline Astor e, soprattutto, la fastosità ostentata dai “Robber Barons” dell’età dorata americana.
La produzione riflette questi scenari con un intreccio globale di ispirazioni: suggestioni Moghul e persiane, giade cinesi accostate a onice nera e rubini, motivi ornamentali mozarabici, giapponesi, ottomani, egizi. Le pendulettes mystérieuses, a partire dal 1912, si arricchiscono di queste influenze, spesso costruite intorno a reperti archeologici evocativi. La fantasia invade anche oggetti d’uso come portasigarette, trousse da trucco, poudrier in lacca, piccoli scrigni che diventano capolavori narrativi.

La mostra di Cartier al Victoria and Albert Museum si apre con una tiara appartenuta a Consuelo Montagu, duchessa di Manchester
Il percorso della mostra si apre con una tiara del 1903, ispirata al Settecento e composta da 1.513 diamanti, oro, argento e pasta di vetro. Appartenne a Consuelo Montagu, duchessa di Manchester, nata da una famiglia cubana a New York: una delle tante dollar princesses approdate nel Vecchio Continente in cerca di un titolo nobiliare.
I dévant de corsage in diamanti degli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, con motivi a fiocco, richiamano l’estetica di Maria Antonietta, riesumata da Eugenia de Montijo e dalla Princesse Mathilde — prima illustre cliente della Maison — e proseguita da icone come Franca Florio e le Vanderbilt.
Nel 1898 Louis Cartier si associa al padre e impone la sua visione. Assume designer in-house e introduce forme geometriche e astratte che anticipano l’Art Déco. Nel 1899 trasferisce la boutique parigina al 13 di rue de la Paix e introduce lo “stile ghirlanda”, combinazione di elementi Louis XVI e neoclassici con l’uso pionieristico del platino.
Louis Cartier realizza il primo orologio da polso per l’aviatore brasiliano Santos Dumont
Nel 1904 Louis Cartier realizza il primo orologio da polso per l’aviatore brasiliano Santos Dumont. Nel 1917 nasce l’iconico modello “Tank”, messo in commercio nel 1919 e amato da Jacqueline Kennedy Onassis, Yves Saint Laurent, Andy Warhol e Cy Twombly. Nel 1928 il “Tank à Guichets” rivoluziona il concetto di orologio con un design digitale meccanico, leggibile attraverso piccole finestre.
Il “Crash Wristwatch”, simbolo degli anni Sessanta e Settanta, è carico di fascino surrealista: richiama gli Orologi molli di Dalì e le Compressioni di César, riflettendo la ribellione della Swinging London e l’aspirazione all’anticonformismo.

L’élite globale: L’occhio di tigre era un sarpech, ossia un ornamento da turbante, appartenuto al Maharajah di Nawanagar
I fratelli Cartier instaurano relazioni con un’élite internazionale di personalità forti e creative che alimentano la visione sperimentale della Maison. Tra queste, la Russia tardo-zarista, conquistata attraverso la collaborazione con Fabergé, maestro degli smalti traslucidi e fornitore privilegiato della corte imperiale.
Arrivano i Maharajah, annidati in palazzi sovraccarichi di decorazione, di specchiere dorate, stucchi e pelli di tigre. Oppure mecenati di regge moderniste, magari figlie della Bauhaus, come la Manik Bagh progettata da Eckhart Muthesius negli anni Trenta per il rajah di Indore Yeshwant Rao Holkar II e la moglie Sanyogitabai Devi.
I rajah fecero a gara nell’esibire i propri tesori all’incoronazione di Giorgio V quale imperatore dell’India. L’occhio di tigre (1937) — diamante fancy tabacco di 61,5 carati, uno spettro dal giallo brunito fino al liquirizia, attraverso infinite sfumature — era un sarpech, ossia un ornamento da turbante, appartenuto al Maharajah di Nawanagar e incastonato in platino e baguette di diamanti a formare una piuma. Aigrettes candide e algidi diamanti che si manifestano come acqua congelata e abbagliante.


Il collier di Patiala di Marjorie Merriweather Post
Marjorie Merriweather Post, donna d’affari e filantropa statunitense, proprietaria di quella Mar-a-Lago a Palm Beach ora residenza di Donald Trump, fu committente di Cartier, come dimostra la teatrale broche da spalla con sei grossi smeraldi incisi Moghul a cascata. Nel 1929 la volle addirittura immortalare nel proprio ritratto.
Il collier di Patiala (1928) è intriso dello splendore insieme freddo e caldo dei diamanti, in parte ricomposto dopo la dispersione di varie pietre. Un filmato mostra il Maharajah durante una cerimonia pubblica come un idolo ieratico, letteralmente grondante di diamanti e perle, dal turbante alle babouches.
I principi indiani ignoravano il passaggio epocale che li attendeva dopo l’indipendenza. Si sfidano a colpi di fasto, specialmente tra le due guerre mondiali, ma la data d’inizio di questa fascinazione per Cartier e le diverse maison europee corrisponde all’incoronazione di Giorgio V e Mary di Teck a imperatori dell’India, durante il Delhi Durbar nel 1911.
Tra il 1904 e il 1914, la Maison si assicura il ruolo di fornitore di sette Case reali: dalla Gran Bretagna alla Russia dei Romanov, dalla Spagna fino alla Thailandia, allora Siam. I principi indiani fanno ridisegnare dalla Maison di Place Vendôme gemme tramandate da eredità ataviche, cui ne aggiungono altre acquistate sui mercati mondiali.

Il gioiello “Nawanagar”: leggenda di rubini Cartier
In questa peculiare area di committenza, gli apporti Art Déco si sposano con la tradizione autoctona. Negli anni dopo la dichiarazione dell’indipendenza del 15 agosto 1947, molti sovrani detronizzati saranno costretti a cedere la maggior parte di questi capolavori.
Pochi gioielli possono catturare l’immaginazione come il collier di rubini e diamanti “Nawanagar”, ponte gettato tra alta aristocrazia d’India, eleganze déco e gusto internazionale. Commissionata nel 1937 dal Maharajah Digvijaysinhji Jadeja — successore del leggendario Ranjitsinhji, campione di cricket — la collana venne creata usando 116 rubini Burma di eccezionale rarità, fra cui numerosi appartenenti allo stesso tesoro reale. È composta da una frangia di rubini ovali, baguette e taglio cuscino, diamanti per i dettagli, le congiunzioni e i pavé. Era destinata a un uomo, mentre un esemplare simile, ma eseguito in zaffiri, Cartier lo realizza per l’ereditiera americana Marjorie Merriweather Post.
Lo stesso Jacques Cartier si dichiarava sorpreso dall’occhio infallibile di Digvijaysinhji, che sapeva discernere il rosso più intenso dei rubini e prediligeva una sfumatura purpurea. Successivamente, cambiando rotta, egli volle acquisire solo rubini dalla tonalità cremisi.
Nei tardi anni ’40 il monile fu rivenduto a Cartier, che ne modificò l’aspetto seguendo un gusto più occidentale e moderno. Il capitolo seguente, però, non è meno glamour: il collier “Nawanagar” fu indossato infatti dalla socialite Gloria Guinness, Swan capotiano e icona di Cristóbal Balenciaga, al “Black and White Ball” di Truman Capote al Plaza di New York nel novembre 1966. Una foto immortala Gloria vicino a Babe Paley, amica e rivale, che sorride misteriosa in mascherina bianca.
Frederick Mew crea per Sita Devi, nel 1953, un bracciale di rare perle nere naturali della Polinesia francese, diamanti e platino
116 rarissime perle naturali e 31 grossi diamanti del più elevato livello di purezza disegnano i tre fili del collier “Le Maharajah”, di ispirazione Mughal. Al centro pende la “Stella di Golconda”.
Maharani Sita Devi, trendsetter della sua epoca, conosciuta come la “Wallis Simpson indiana”, si sposa con Pratap Singh Gaekwad di Baroda nel 1943. Lui è uno tra i più ricchi sovrani dell’India, titolare di un regno nell’attuale Gujarat.
Frederick Mew crea per lei nel 1953 un bracciale di rare perle nere naturali della Polinesia francese, diamanti e platino. Mew, lungo quarant’anni anima della sede londinese, dapprima con Jacques e poi con il figlio Jean-Jacques Cartier, è il realizzatore di commissioni, non di rado per la Casa Reale.
La maharani di Baroda, per decenni personalità di spicco del jet-set, trascorre gli ultimi anni a Montecarlo, spendendo notti intere al Casino prima di finire praticamente in rovina.
Per la sua antagonista Wallis Simpson, nel 1956 Cartier immagina una collana che alterna perle naturali a diamanti su oro bianco e platino. Il pendentif è una perla naturale barocca, incorniciata da platino e diamanti, che non sfigurerebbe sul décolleté della Cleopatra affrescata da Tiepolo nel veneziano Palazzo Labia.
Jeanne Toussaint, musa creativa di Cartier e madre del simbolo Panthère nella gioielleria del Novecento
Jeanne Toussaint, la cui parabola esistenziale presenta varie similitudini con quella di Coco Chanel, entra nella Maison Cartier nel 1913 quale coordinatrice degli accessori. Amava follemente le pantere, che ovunque e in ogni forma si potevano vedere nella sua residenza parigina. Ne farà il proprio simbolo e una legacy tuttora fondamentale per la Maison. Lo dimostra il collier in oro giallo e bianco “Panther-pattern” del 1991.
Nel 1914 Louis Cartier commissiona all’illustratore Georges Barbier un biglietto d’invito dove, per la prima volta, compare una pantera nera ai piedi di una signora elegante stagliata tra due colonne. Subito dopo, il felino — maculato stavolta — va a caratterizzare alcuni orologi. Sempre in quell’anno, Louis dona a Toussaint un portasigarette in onice, platino e diamanti che raffigura la fiera di profilo tra due cipressi stilizzati da miniatura Mughal. La dedica la dice lunga: “à ma petite panthère”.
Nel corso degli anni ’20, Jeanne inventa con successo crescente delle minaudières per Daisy Fellowes e la solita Marjorie Merriweather Post, tra le altre. Nel 1933 viene nominata responsabile della progettazione artistica della Maison. Louis muore negli USA nel 1943, ma Jeanne rimane al suo posto fino al 1970, quando decide di ritirarsi.
Già nei ’40 aveva abbandonato il déco per passare a una rappresentazione scultorea tridimensionale, creando le adorate pantere a tutto tondo con onice, diamanti e smeraldi.
Barbara Hutton e il collier in giade birmane: rarità imperiale e simbologia cinese nell’alta gioielleria Art Déco
A Barbara Hutton, mitica ereditiera dalla schiera di mariti, che impalma caparbia inseguendo la felicità, apparteneva il necklace che infila 27 sfere di giadeite di un eccezionale colore verde, unico per qualità e trasparenza. Giade degne di un’imperatrice Qing — a loro erano riservate tradizionalmente — con ogni probabilità provenienti dalle leggendarie miniere di Hpakan in Birmania.
Un collier impossibile da ripetere. Ogni sfera va da 15,40 a 19,20 mm di diametro ed è stata ricavata da un unico masso. Raramente le boules di prima qualità superano i 10 mm. Fu un presente dell’allora consorte di Hutton, il georgiano principe Alexis Mdivani, nel 1933. L’anno successivo, Barbara decise di far montare la fermezza circolare di rubini e diamanti su oro e platino che la collana conserva tuttora. Il contrasto rosso e verde, tipicamente Art Déco, è ricco di simbolismo cinese.
Linda Lee e lo stile “Tutti Frutti” di Cartier: eleganza custom-made tra musical di Broadway e passione coniugale
Linda Lee, moglie del compositore Cole Porter, preferiva lo stile “Tutti Frutti”, di cui si fa sostenitrice dal 1935. Disincantata e chic, offriva al marito — cui la legava un amore profondo, noncurante che lui fosse notoriamente omosessuale — un portasigarette tematico, naturalmente Cartier custom made, in occasione di ogni première dei suoi fortunati musical.
Daisy Fellowes, Elsa Schiaparelli e il “Collier Hindou”: icona dello stile Tutti Frutti di Cartier tra India, Art Déco e avanguardia
Daisy Fellowes, erede della fortuna delle macchine da cucire Singer, ordina il “Collier Hindou”, trionfo di incroci e influenze culturali, nel 1936. Rimane il più celebrato esempio dello stile “Tutti Frutti”, con i suoi castoni asimmetrici e il mosaico di tonalità.
Uscita dai laboratori parigini di Cartier, la collana è una superba composizione policroma di smeraldi, rubini, zaffiri scolpiti, misti a diamanti e montati in oro bianco e platino. Molte delle pietre, finemente incise a guisa di bacche o foglie, provenivano dall’India e il concetto si ispirava ai monili delle cerimonie tradizionali indiane.
Il collier incarna al massimo l’estetica di Cartier e le influenze orientali che accoglie nel periodo tra le due guerre. Daisy Fellowes, fashion editor ad Harper’s Bazaar e “confidante” di Elsa Schiaparelli, era famosa per la sua eccentricità flamboyante in anticipo sul tempo. Lungo numerosi viaggi aveva raccolto una collezione ingente di gemme indiane, tra cui quelle usate per questo pezzo, in origine in forma di sautoir.
Daisy lo indossa per un ballo a Parigi nel 1936 che fa assurgere il collier a emblema di una frontiera luxury d’avanguardia. Nel 1962, alla sua scomparsa, il monile passa alla figlia Emmeline de Castèja, che lo fa ridisegnare dalla Maison l’anno seguente per adattarlo ai tempi, mantenendone però l’unicità dell’imprinting “Tutti Frutti”.

Edwina Ashley Mountbatten, viceregina d’India e lo stile Tutti Frutti Cartier: metamorfosi del lusso tra storia imperiale e modernità
Stesso ambito stilistico prediligeva Edwina Ashley, contessa Mountbatten di Burma, inquieta ultima viceregina d’India. Il bandeau “Tutti Frutti” di zaffiri, rubini e smeraldi scolpiti a frutti e fogliame su platino, del 1928, può essere diviso in due bracciali dalla modernità senza eccessi. Siamo alle soglie della crisi economica mondiale del 1929.
Negli anni Sessanta, dopo la morte della proprietaria, il gioiello viene messo in vendita e nel 2004 lo acquistano William e Judith Bollinger. Entrerà poi nelle collezioni del Victoria and Albert Museum.
Doris Duke e il bandeau ispirato all’arte islamica: la passione per Cartier tra orientalismo, ecologia e spirito Jazz Age
L’americana Doris Duke, grande ereditiera e fra le maggiori collezioniste di gioielli del ’900, è figura a sé: corrispondente di guerra, filantropa, fra i primi ecologisti, coltiva una passione per l’arte islamica. Ordina pièces uniques di gusto animalier dalla sensualità quasi barbarica. Emblematico il bandeau in perle naturali, diamanti e platino, ornato di motivi geometrici islamici e indiani, creato da Cartier New York nel 1924 per essere portato basso sulla fronte, sopra i capelli tirati indietro e imbrillantinati, com’era d’uso nell’età del jazz. Doris lo eredita dalla madre Nanaline Duke.
I gioielli della corona britannica tra regine, principesse e tiara Halo: Cartier e le committenze reali da Alexandra a Kate Middleton
Una sezione è dedicata alle committenze particolari della corona britannica. Nelle vetrine londinesi della mostra, questi pezzi commuovono il pubblico più maturo, che vi si sofferma a lungo.
Dalla splendida regina Alexandra si arriva a Catherine Middleton. Per le nozze con il principe William, Kate sceglie la “Halo Tiara” in diamanti e platino, acquistata dal duca di York per la moglie Elizabeth Bowes-Lyon nel 1936; il diadema, dopo l’ascesa al trono, verrà donato alla futura Elisabetta II per il diciottesimo compleanno.
La spilla di diamanti Williamson è una commissione della regina per la propria incoronazione del 1953: monta un diamante rosa di 23,6 carati, dono di nozze ricevuto nel 1947. Elisabetta II la indossa, tra l’altro, nel ritratto del 1954 con i due figli maggiori e poi ai matrimoni di Carlo e Diana (1981) e del principe Edward con Sophie Rhys-Jones (1999).
Romantica e stilizzata è la broche a rosa in diamanti e platino, disegnata da Cartier London nel 1938 e donata alla principessa Margaret Rose dalla società Vickers-Armstrongs nel 1952, durante una visita ai cantieri navali di Newcastle. L’interesse di Margaret per la botanica riecheggia nella gioielleria: il fiore splende in diversi ritratti di Cecil Beaton e brilla all’incoronazione della sorella nel 1953.
Wallis Simpson, Duchessa di Windsor e la rivoluzione cromatica nei gioielli Cartier tra simbologia, status e pantere
Sul fronte opposto delle royalties britanniche il fulcro è Wallis Simpson, la sofisticata divorziata americana per la quale Edoardo VIII rinuncia al trono. Bandita dalla corte per volontà della regina Mary, Wallis si affida ai gioielli come schermo apotropaico e affermazione di status, trovando in Cartier l’interprete perfetto.
Del 1947 è il collier ad alveare in oro giallo, platino e diamanti che sdogana un binomio cromatico inedito: turchesi e ametiste per circa 300 carati. Tanto apprezza l’accostamento da commissionare altri tre gioielli nella medesima gamma tra il 1948 e il 1950, richiedendo a Christian Dior, nel 1953, un abito in gradazione per esaltarli.
Nel 1948 Jeanne Toussaint consegna alla duchessa una spilla “Panthère” in oro giallo, smeraldi e smalto nero, con orecchini abbinati; due anni più tardi Wallis acquista una broche con pantera tridimensionale a pavé di brillanti bianchi e gialli che abbraccia uno zaffiro cabochon di 152,45 carati. Nel 1954 arriva la lorgnette “Tiger” in oro giallo, smeraldi e smalti. Evidentemente la duchessa si identifica con questi felini feroci, pur adorando i suoi inseparabili pugs.

Liliane de Rethy e la Stag Brooch Cartier: tra cervi, diamanti e platino una favola belga d’amore e natura
Per la principessa Liliane de Rethy, seconda moglie di Leopoldo III del Belgio, Jean-Jacques Cartier — cognato della principessa — immagina nel 1966 la “Stag Brooch”: diamanti, rubini e smeraldi incastonati su platino e oro giallo, in tecnica serti invisibile. La nobile testa del cervo, animale prediletto di Liliane, pare emergere da una fiaba gotica, creata per celebrare il venticinquesimo anniversario di matrimonio della coppia.

Hollywood e Cartier: da Elizabeth Taylor a Grace Kelly, icone del cinema e tiara leggendarie nella storia della gioielleria
Lo star system di Hollywood non può mancare in questo viaggio attorno all’alta gioielleria. Liz Taylor, pazza per pietre e gioielli, riceve dal produttore Mike Todd — suo terzo marito — un collier di rubini, diamanti, platino, oro bianco e oro giallo nel 1957, durante una vacanza in Costa Azzurra.
Gloria Swanson, all’apice della notorietà, nel 1932 acquista due bracciali in diamanti, cristallo di rocca e platino (datati 1930). Li indossa sul set come molti attori dell’epoca, esibendoli in Perfect Understanding (1933) e nel capolavoro di Billy Wilder Viale del Tramonto (1950), film cui il suo nome rimane indissolubilmente legato.
Del 1955 è la tiara di Grace Kelly: rubini, diamanti, platino, oro bianco e giallo. In origine si tratta di tre broche donate come regalo di nozze; i colori — rosso e bianco — richiamano la bandiera del Principato di Monaco, e gli elementi possono riunirsi in una tiara.
Le tiara più iconiche di Cartier: tra diademi reali, opali, smeraldi e citrini una danza di capolavori sospesi nel tempo
Le storie potrebbero proseguire all’infinito. Cartier, più che interpretare lo Zeitgeist, lo anticipa: sfida l’effimero con montature impossibili altrove e gemme cariche di fascino e mistero. Tutto inizia con una tiara e, oltre un tendaggio nero, termina con una danza di diademi sospesi quasi nel vento.
Ecco gli opali fantastici della demi-parure — tiara e collier — di Mary Alice Cavendish, marchesa di Hartington (1936); la “Sun Tiara” a raggi in diamanti e platino (1907), ora con un diamante fancy giallo intenso di 32,58 ct che sostituisce prima uno zaffiro e ancor prima il diamante originale.
La “Halo Tiara” della Begum Andrée Aga Khan (1934) mostra un motivo a zig-zag nel bandeau staccabile e una teoria verticale di fiori di loto. Lady Granard sorprende con un imponente diadema d’ispirazione indiana, irto di pinnacoli a mandorla e citazioni islamiche su rete di diamanti, perle e zaffiri (Cartier Paris 1923, modificato da Cartier London 1937).

Turchesi, platino e diamanti a boteh — il paisley indo-persiano — si sposano con forme thailandesi e cambogiane nello spettacolare “Magnifique motif 2 palmes” (1936) ideato per l’honourable Robert Henry. Volteggiano la tiara del 1913 in “Garland style” di Alexandra Calvocoressi-Comnène Everts e quella neoclassica a foglie d’olivo, platino e diamanti, creata per le nozze di Marie Bonaparte con Giorgio di Grecia e Danimarca nel 1907.
Straordinario lo smeraldo di 141,13 ct della tiara “Bérénice”, ricavato da uno shoulder ornament del 1925 ammirato all’Esposizione Internazionale di Parigi; segue il kokoshnik di Marie-Hélène de Rothschild (1914) in diamanti, perle naturali, onice, smalto e platino, precursore dell’Art Déco.
Le 146 acquemarine e i 133 diamanti della tiara déco del 1937 — anno dell’incoronazione di Giorgio VI — seducono ancora oggi: il centro staccabile diventa spilla, indossata dalla principessa Sirivannavari di Thailandia e da Monica Bellucci.
Elsie de Wolfe, lady Mendl, abbaglia il “Bal Colonial” parigino del 1931 con un diadema esotico che combina il fuoco dei citrini a diamanti a pera su platino e oro. Più insolito ancora il kokoshnik commissionato da Suzanne Lady Avery (1914): acciaio nero, rubini, diamanti a pera e finimenti in platino, affine alla versione austera voluta dal principe Karl Egon V von Fürstenberg per la sposa Franziska Ida von Nostitz-Rieneck (1921), apparsa all’asta Sotheby’s 2015 e poi da Christie’s nel 2018.
Scroll Tiara e gran finale: il sogno Cartier tra balli imperiali, storia d’Europa e bellezza incalzante da museo
Avvolto in una nebbia sognante, il preludio dello spettacolo conclusivo è affidato alla “Scroll Tiara” di Adele, contessa di Essex (1902): oltre 1 048 diamanti su oro e argento, esempio precoce di “stile ghirlanda”. Lady Clementine Churchill la indossa all’incoronazione di Elisabetta II; qui è affiancata dal choker di Mary Scott-Townsend, merletto in platino e diamanti del 1906.
Cesare Cunaccia
