Seasons a Bergamo e Santa alle Reggiane: Maurizio Cattelan mette in scena fragilità materiali e umane, e conferma la propria cifra: non erigere monumenti eterni, ma costruire domande
L’impegno umano di Maurizio Cattelan: l’arte come domanda perpetua
In Seasons e Santa, Maurizio Cattelan conferma la propria cifra: non erigere monumenti eterni, ma costruire domande. Le sue opere non offrono risposte. Sono dispositivi in grado di mettere in crisi abitudini percettive e certezze collettive. Con Santa trasforma l’ex spazio industriale delle Reggiane in microcosmo utopico, dove danza, luce e suono dialogano con opere che sospendono la storia tra sacro e produzione. Con Seasons inserisce sculture in luoghi simbolo di Bergamo, creando dialoghi inattesi tra storia urbana, paesaggio alpino e fragilità sociale.
La sostenibilità emerge qui come cura delle relazioni: tra l’uomo e il suo contesto, tra le generazioni e la memoria collettiva. Cattelan mette in scena fragilità materiali e umane: marmo che si sgretola, vetro che riflette vuoti, corpi che rinunciano a un’autorità stabile, immagini che si occultano. In questa incertezza risiede la forza critica dell’arte: costringere chi osserva a portare sempre con sé una domanda aperta, eppure essenziale: quale mondo vogliamo abitare domani?
Maurizio Cattelan. Gli inizi tra Padova e il laboratorio dell’anti-gesto
Maurizio Cattelan nasce a Padova il 21 settembre 1960. Trascorre l’infanzia smontando radio e televisori. Qui apprende tecniche di assemblaggio e saldatura che torneranno utili nella sua pratica. Frequenta l’Istituto tecnico industriale ma abbandona presto l’istruzione formale. Conduce lavori sporadici (giardiniere, cameriere, portalettere) finché, nei tardi anni Ottanta, entra nel collettivo Magnetica Attrattive – con Gianni Data e Giampaolo Sartore – sperimentando immagini con strumenti analogici legati al medium del video. La sua prima mostra personale risale al 1989, alla galleria Neon di Bologna. Espone sculture in gesso che riducono figure umane a silhouette essenziali. Non cerca l’effetto estetico fine a sé stesso, ma un “anti-gesto” che rimandi all’idea duchampiana di vuoto e provocazione. Già in quegli anni ribadisce un principio: l’opera è un dispositivo cognitivo, non un’icona da contemplare.
Ribaltare il codice: strategie e Fondazione Oblomov
Nei primi anni Novanta, Cattelan inizia a mettere in discussione il sistema dell’arte dall’interno. Con Strategie (1990) compra 500 numeri di Flash Art, sostituendo le copertine con suoi progetti. Il magazine stesso diventa galleria ambulante. Nel 1992 lancia Fondazione Oblomov, raccogliendo fondi da redistribuire a chi rinuncerà a esporre per un anno: un gesto che denuncia la tendenza a misurare l’artista dal numero di mostre all’attivo. La stessa linea emerge alla Biennale di Venezia 1993, quando affitta il proprio spazio espositivo a un’agenzia pubblicitaria: Lavorare è un brutto mestiere, recita il titolo dell’intervento. L’opera diventa riflessione sul limen tra arte e mercato, dove l’autonomia dell’autore si misura con l’ironia del contesto.
Il paradosso della marginalità: Turisti e Billboards
Il 1997 è l’anno di Turisti, installazione presentata al Padiglione Italia della Biennale: duecento piccioni imbalsamati appoggiati sulle travi, con gli escrementi a terra. Non è uno show gratuito, ma indagine sul visitatore che si fa spettatore di un degrado simulato. Come scriveva Susan Sontag, l’immagine decontestualizzata è cortocircuito che costringe a rivedere il proprio sguardo. Un anno dopo, Billboards trasforma due manifesti in sofismi pubblicitari: layout essenziali simili a campagne commerciali, senza slogan né marchi. L’arte diventa testo da consumare e, nello stesso gesto, ne denuncia la mercificazione, in un dialogo con le teorie di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità.
Maurizio Cattelan: la ruvidità del sacro ne La Nona Ora
Il 1999 segna la consacrazione internazionale con La Nona Ora. Scultura in marmo raffigurante Papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite, esposta al Padiglione Italia della Biennale di Venezia. Scatenò polemiche sul presunto sacrilegio. La lettura di Hans Ulrich Obrist: l’opera non è un attacco alla fede, ma riflessione sul potere mediatico del sacro. Georges Bataille scriveva che il sacro è paradosso: la figura pontificale a terra non desidera offendere la religione ma mettere a nudo la fragilità di un’istituzione nell’era dell’informazione globale. Il marmo, materia classica, si apre allora a una dialettica tra tradizione e dissacrazione.
Him: il male come supplica ambigua
Nei primi anni Duemila Cattelan sposta l’indagine sul concetto di male. Him (2001) è una scultura in cera e resina che ritrae Adolf Hitler inginocchiato davanti a una croce. Il gesto richiama i testi di Hannah Arendt e la banalità dell’orrore. Nicolas Bourriaud, ne L’estetica relazionale, definirebbe quell’opera “evento relazionale mancato”: costringe alla riflessione senza generare empatia, mostrando come la storia possa ripresentarsi come maquette critica del presente. Hitler in ginocchio è cortocircuito tra abiezione e devozione, tra culto e orrore. Le parole mancano e l’immagine politica si fa enigmatica.
Maurizio Cattelan: L.O.V.E. e la mano mutilata davanti alla borsa di Milano
Nel 2005 L.O.V.E. (chiamata Commons in un primo allestimento) è l’installazione di una mano in marmo col pollice sollevato e quattro dita mozzate, collocata a Milano davanti alla Borsa. L’intervento richiama Alberto Giacometti nel suo corpo scavato dalla precarietà e, al contempo, l’idea warburghiana di “Nachleben der Bilder”: un’icona mutilata evoca ricordi collettivi e processi di memoria. Piazza Affari, spazio di finanza globale, diventa teatro di una critica muta al potere economico. Chi attraversa il luogo si misura con la storia italiana di speculazioni e proteste. Cattelan non spiega; instilla il dubbio.
Editoria e riappropriazione: Toiletpaper e la rivoluzione dell’immagine
Tra il 2010 e il 2011 nascono le pagine di Toiletpaper, rivista biennale realizzata insieme a Pierpaolo Ferrari: un collage di immagini surreali e provocatorie senza testi né pubblicità – ricordiamo anche l’esercizio di Permanent Food, la rivista cannibale. Toiletpaper serve a restituire valore all’immagine pura come medium, in una mappa visuale che vive sui social e nelle strade. Maria Løkke, sul New Yorker, la definisce laboratorio di “post-internet”: progetto che recupera la fotografia come linguaggio libero da gerarchie testuali. La pubblicazione espande il campo di operazione di Cattelan, spostando l’attenzione dal singolo oggetto-scultura ai percorsi di diffusione dell’immagine.
America, Comedian: l’ironia ruvida di Maurizio Cattelan
Nel 2016 Cattelan realizza America, water in oro a 18 carati per il Guggenheim di New York. Chiusa in una stanza sorvegliata, diventa simbolo di un lusso estremo: oltre centomila persone fanno la fila per usarlo. È omaggio rovesciato a Duchamp, ma anche critica al potere economico che invade lo spazio pubblico. Tre anni dopo, a Art Basel Miami Beach, colloca Comedian: una banana attaccata al muro con nastro adesivo, venduta per 120000 dollari. Una provocazione – ancora – che mette in luce la logica del mercato globale: l’effimero “mangia” l’aura, diventando meme e merce allo stesso tempo. Antonio Somaini la chiama “metafora della mercificazione”: la banana è corpo fragile che si trasforma in oggetto di consumo.
Maurizio Cattelan: fragilità umana e sostenibilità culturale
In tutta la sua produzione emerge un interesse per la sostenibilità culturale intesa come cura delle reti di significato. Bruno Latour, parlando di ecologia delle cose, propone di ripensare le relazioni fra oggetti, soggetti e contesti. Cattelan mostra l’opera come evento transitorio: la banana marcisce, il marmo si logora, la cera si scioglie. Tuttavia, la forma sopravvive in nuove edizioni, incarnando il concetto warburghiano di Nachleben: le immagini sopravvivono mutando con il contesto. Non si tratta di creare oggetti eterne, ma nodi di una memoria collettiva in costante rigenerazione.
Reggio Emilia, 12 giugno – 5 luglio 2025. Santa: l’ex fabbrica come luogo di domande
Santa nasce come prima tappa di “Danze dell’Utopia”, progetto di Gigi Cristoforetti curato da CCN/Aterballetto. Il palcoscenico è l’ex stabilimento Reggiane, divenuto Parco Innovazione. Un tempo brulicante di motori e operai, oggi riconvertito in techno-hub e incubatori, simbolo di sostenibilità storica: non solo rigenerazione fisica ma cura delle responsabilità collettive. Santa invade capannoni, cortili e spazi aperti, trasformando l’archeologia industriale in esperienza immersiva.
Afferma Cristoforetti «siamo conosciuti per gli spettacoli, come Notte Morricone, e per le tournée internazionali. Tuttavia, limitarsi a questo ci farebbe sentire monodimensionali. Piatti. Affrontare uno spazio come le Reggiane significa confrontarsi con il passato e il futuro di una città. Non lo puoi fare “portando” uno spettacolo. Abbiamo creato un percorso di reinvenzione di quello spazio, che viene raccontato e abitato. Da opere, da corpi, da parole e da musica.
Volevamo creare qualcosa che prima non esisteva. L’utopia oggi segna la distanza tra ciò che conosciamo e ciò che non conosciamo. Il nostro eterno presente, la memoria corta, la mancanza di immaginazione; queste sono le condizioni di partenza. Il compito dell’arte è quello di risvegliare l’inatteso, scuotere, irridere questa nostra miopia. Una volta forse l’utopia ci parlava di qualcosa di meraviglioso e ideale. Oggi è semplicemente un insieme di scoperte ed emozioni che vanno oltre gli orizzonti piuttosto omogenei della nostra vita».




Intervista a Nicolas Ballario: un testo che non spiega ma celebra il dubbio
La drammaturgia è firmata da Nicolas Ballario, che compone frammenti testuali – parole-filtro, appunti di diario, interruzioni – affidati alle cuffie silent-disco del pubblico. Il testo non spiega ma vibra nello spazio, aprendo voragini interpretative. È la lezione di Samuel Beckett: il silenzio e il vuoto tra le parole hanno più peso della spiegazione stessa. Lara Guidetti firma la coreografia: danzatori come ombre tra travi e impalcature, oscillano tra danza contemporanea e gesto rituale. Non c’è platea, solo un percorso. Il pubblico diventa parte attiva, costretto a misurare passi e visione.
Per Ballario, «Santa sembra un grande rito, una processione. Anziché essere una manifestazione pubblica di fede, celebra il dubbio. L’arte serve proprio a questo, a dirci che tutto è mobile: con Santa suggeriamo che persino la storia non sia fissa, ma possa muoversi e cambiare attraverso il nostro sguardo. Con questo progetto attraversiamo letteralmente un pezzo di storia del quartiere, della Città, d’Italia, offrendo tanti punti di vista diversi. Più che religiosità, c’è simonia, quasi la volontà di vendere a ogni stazione del pellegrinaggio un bene spirituale diverso. È qualcosa di profondamente sbagliato e bello allo stesso tempo. Lo spazio celebra questo cortocircuito».
Il Papa inginocchiato e l’eco della sacralità secondo Maurizio Cattelan
In un capannone semibuio si staglia un Papa inginocchiato, versione rivisitata di La Nona Ora. Realizzato in resina con finiture scure, accoglie la luce di Marcello Marchi come lamelle intermittenti. Il contrasto tra sacralità iconica e architettura meccanica richiama un luogo che un tempo produceva pistoni. Il simulacro religioso diventa monito: il sacro è fragile, sospeso tra produzione e meditazione. Lo spettatore capisce che il gesto di fede è strettamente connesso ai luoghi che lo ospitano.
Prosegue Ballario: «l’arte non va mai spiegata, perché non ha un intento diretto e unico. Nel percorso riporto le parole di Cattelan che dice che se una cosa è risolta è artisticamente morta. Però serve un contesto. Qui abbiamo cercato di costruirlo attraverso le parole, le opere, l’architettura, il corpo dei danzatori. Abbiamo messo tutto in un frullatore facendo molta attenzione a calibrare le dosi ma senza la presunzione di voler dire tutto. Perché quel luogo ha tante di quelle cose da dire e da scoprire che sarebbe stato stupido ambire alla completezza».
Santa: scultura, memoria e rete di significati
In un altro capannone emerge un volto in marmo tra vecchie macchine arrugginite. Non è memoriale ufficiale, ma frammento spoglio di un’eredità industriale. Rimanda alla pratica di Pistoletto, che negli anni Settanta lavorava nelle fabbriche dismesse. Secondo Bruno Latour, l’arte è nodo in una rete che abbraccia memoria e progetto. Qui la scultura diventa snodo che interroga il visitatore sul rapporto tra manufatto industriale e pratica artistica, sollecitando un’idea di rigenerazione oltre l’estetica.
Suono, luci e costumi come corpi autonomi
Il sound design di Marcello Gori mescola rumori di ingranaggi, suoni ambientali e frammenti di canto gregoriano, quasi componendo una colonna sonora rituale. Le luci di Marcello Marchi si insinuano tra i pilastri e i macchinari, creando ombre drammatiche che si sovrappongono alla performance. I danzatori indossano abiti-stracci progettati da Maria Barbara De Marco e Fabrizio Calanna: tuniche cerimoniali in tessuto scuro che diventano armature leggere. Sembrano guerrieri stanchi, incarnazione della precarietà e della tensione verso una possibile rinascita. Ogni corpo è nodo critico, secondo Joseph Beuys: punto di rottura e al contempo di potenziale rigenerazione.
Santa e la mappa di una sostenibilità storica
Santa si configura come esperienza di sostenibilità storica e culturale. Le Reggiane, riconvertite in techno-hub, rappresentano esempio di rigenerazione urbana: non basta riciclare muri, serve curare relazioni tra spazio, comunità e memoria del lavoro. Jane Jacobs insegnava che il passato deve nutrire il futuro, non essere cancellato. Anche qui, l’ex fabbrica non si limita a ospitare lo spettacolo, ma diventa nodo di un discorso che intreccia memorie operaie e visione di un domani possibile. L’arte e la danza non sono evasione: sono strumenti di lettura di un contesto in trasformazione.
La mostra Seasons: Bergamo come mappa di tempo e memoria
Bergamo, 7 giugno – 26 ottobre 2025. Seasons è progetto diffuso in quattro luoghi chiave: Sala delle Capriate (Palazzo della Ragione), GAMeC, Ex Oratorio di San Lupo e Rotonda dei Mille. Cattelan vi presenta cinque opere che esplorano ascesa, caduta e rinascita. Il titolo non evoca solo stagioni naturali, ma anche fasi sociali e personali. Bergamo diventa spazio di riflessione urbana sulla ciclicità della convivenza, liberando l’arte nella trama cittadina, più che racchiuderla in scatole museali.
Seasons come giardino planetario collettivo
L’intero percorso si muove sotto il segno della sostenibilità urbana e culturale. Bergamo, città che convive con la montagna e il turismo, si trasforma in un “terzo paesaggio” alla Gilles Clément: luoghi marginali che, come spazi di rifiuto, contengono potenzialità di rigenerazione. Le opere non decorano, ma mappano la città, invitando a riflettere su relazioni tra abitanti e ambiente. Le stagioni, qui, non sono solo meteorologiche: sono stagioni dell’immaginazione, del crollo e della rinascita. Un intreccio di tempi collettivi.
La fragilità umana in November: l’esistenza ai margini
Nella Sala delle Capriate spicca November (2023), scultura in marmo statuario Michelangelo che ritrae un senzatetto sdraiato su una panchina, con i pantaloni slacciati e un filo di urina sul pavimento. Il volto è quello di Lucio, amico e collaboratore di Cattelan. Collocata in uno spazio che un tempo ospitava tribunali e assemblee medievali, l’opera intreccia temi di giustizia, potere e marginalità. Il marmo parla di solitudine quotidiana in una città alpina che convive con storia e turismo. L’invito è a interrogare il proprio sguardo, come suggeriva Susan Sontag: l’immagine del disagio costringe a misurare la distanza tra noi e gli “invisibili”.
Le opere Empire e No: gesti non compiuti
All’interno della GAMeC, Empire (2025) si presenta come blocco di vetro fumé: forma che evoca una molotov non esplosa, segno di una rivoluzione abortita. Suggerisce che il gesto simbolico non basti a innescare cambiamento. Claire Bishop, in The Social Turn, osservava che l’arte politica è fallita se resta simbolo: serve concretezza per scalfire il presente. Con Empire, l’“atto mancato” è già critica.
No (2021) reinterpreta Him (2001), ma qui il volto di Hitler è coperto da un sacchetto di plastica nera. L’operazione nasce da una censura cinese, ma diventa strumento di riflessione: l’occultamento protegge lo spettatore dal trauma e, al tempo stesso, punisce il soggetto. Il vuoto visivo è innesto di inquietudine: ciò che non si vede pesa più di ciò che resta visibile.
Bones e One: ricostruire l’assenza secondo Maurizio Cattelan
Nel vicino Ex Oratorio di San Lupo, Bones (2025) occupa lo spazio sacro con blocchi di marmo disposti come ossa di un edificio crollato. L’opera rimanda al tema della montagna indagato da Giovanni Testori: conflitto tra paesaggio e rovina. Qui la fragilità delle comunità emerge dal crollo immaginato. In un luogo di preghiera, i frammenti marmorei scandiscono un’assenza che invita al rammendo culturale: la pietra stessa diventa appello alla cura dello spazio comune.
One (2025) si erge nella Rotonda dei Mille, dedicata ai bersaglieri. Sulla statua di Garibaldi, spunta un bambino con le dita a forma di pistola: tra innocuo gioco e potenziale atto di ribellione. Parla a una generazione che ridefinisce l’identità nazionale. Walter Benjamin sosteneva che i monumenti congelassero il passato. Qui, One interroga il futuro e ci chiede quale unità sia ancora possibile, dissolvendo la narrazione ufficiale in un gesto di discontinuità
Federico Jonathan Cusin
