Marisa Gabrielle Abela in Back to Black movie, the story of Amy Winehouse by Sam Taylor-Johnson

Il marketing della nostalgia: Bruce Springsteen e la biopic fatigue

I biopic musicali continuano a far storcere il naso ai cinefili, ma attirano al cinema tutti gli altri. Tra miti storpiati e botteghino facile, Hollywood non molla la presa: è il marketing della nostalgia.

Springsteen: Liberami dal nulla — il biopic che doveva salvare un genere in crisi

Springsteen: Liberami dal nulla di Scott Cooper era stato presentato come il film capace di salvare il biopic musicale dalla crisi degli ultimi anni. In parte è andata così: il verdetto su Jeremy Allen White nei panni del Boss del New Jersey è stato unanime. Promosso. Anche le critiche sono state abbastanza positive, almeno quelle generaliste; gli appassionati più severi un po’ meno. Ma non si può parlare di un successo.

Uscito in sala dalla seconda metà di ottobre, a fronte di un budget di 50-60 milioni di dollari (esclusi marketing e distribuzione), ne ha incassati meno di 40. Il film non è riuscito ad attirare il grande pubblico. Forse perché racconta un periodo particolare: quello di Nebraska (1982), prima che Springsteen diventasse una rockstar. Born in the U.S.A. sarebbe arrivato due anni dopo.

Le premesse c’erano, e persino Springsteen aveva dato il suo via libera al progetto dopo averne bloccati molti altri. Chissà se riusciranno nell’impresa i biopic di Sam Mendes sui Beatles — uno per ogni membro, in calendario per il 2028 — o quello sui Bee Gees diretto da Ridley Scott. O ancora il film su Michael Jackson di Antoine Fuqua.

Biopic musicali in overdose: dalla rinascita del genere alla stanchezza del pubblico

Il biopic su Springsteen arriva poco dopo un periodo in cui siamo stati bombardati da questo filone cinematografico. Da qui il termine che ha iniziato a circolare: biopic fatigue. Troppi titoli, tutti insieme, spesso poco ispirati. Eppure finora abbiamo continuato a guardarli.

Come sempre, quando qualcosa funziona, Hollywood ricicla senza sosta la stessa formula finché i botteghini non si svuotano. Solo allora tocca tornare a inventare storie originali.

Una prima stagione d’oro per il genere, guardando ai tempi recenti, risale alla metà dei Duemila, sulla scia del successo di Ray (Ray Charles), Walk the Line (Johnny Cash) e La Vie en Rose di Olivier Dahan (Édith Piaf). Il fenomeno è esploso di nuovo tra il 2018 e il 2024, con oltre una decina di titoli.

Dalla febbre di Bohemian Rhapsody al caso Bob Marley: One Love — sei anni di trionfi (e cliché)

A inaugurare la nuova ondata è stato Bohemian Rhapsody di Bryan Singer, sui Queen e Freddie Mercury (20th Century Fox). Considerato il film che ha rilanciato il genere, ha trasformato la nostalgia in una montagna di dollari: quasi 900 milioni. Quattro Oscar, tra cui miglior attore a Rami Malek. È piaciuto alla critica generalista, anche se molti hanno sottolineato quanto fosse edulcorato, soprattutto nella rappresentazione della malattia di Mercury.

Nel 2019 è arrivato Rocketman di Dexter Fletcher, con Taron Egerton nei panni di Elton John (Paramount Pictures). Incassi più contenuti, ma un passo avanti in termini estetici: opulento, visionario, apprezzato anche dai cinefili.

Grande successo anche per Elvis di Baz Luhrmann (2022, Warner Bros.), che è valso ad Austin Butler una candidatura all’Oscar. I suoi 290 milioni di dollari dimostrano che il film è riuscito a parlare a tutti, anche ai non fan. Nonostante non fosse tecnicamente impeccabile, è stato promosso quasi all’unanimità.

Stessa sorte per A Complete Unknown di James Mangold (2024, Searchlight Pictures): pur camminando sul filo della semplificazione, ha dato a Timothée Chalamet una nomination agli Oscar.

E poi Bob Marley: One Love (Reinaldo Marcus Green, 2024). Kingsley Ben-Adir è stato convincente, anche se il film è parso privo di profondità, ancora una volta più celebrativo che narrativo. Eppure 181 milioni di incasso hanno segnato l’ennesima vittoria per Paramount. La lezione? Anche un prodotto di marketing non particolarmente brillante può reggersi sulle spalle di un gigante.

Timothée Chalamet stars as Bob Dylan in A Complete Unkwon by James Mangold_03
Timothée Chalamet stars as Bob Dylan in A Complete Unkwon by James Mangold

Hollywood non molla la formula: nostalgia, sicurezza e botteghino prima di tutto

Rinvigorita da questi numeri, Hollywood continua a puntare sul sicuro. Creare da zero richiede più rischio; rivendere il già noto è più comodo. Finché il mercato non è abbastanza saturo, le major resteranno prudenti.

Non importa se critica e cinefili iniziano a mostrare insofferenza: l’obiettivo è riempire le sale, non compiacere gli intellettuali. E non è nemmeno necessario che il pubblico conosca davvero l’artista raccontato. Renée Zellweger lo ha dimostrato con Judy (2019): Oscar a lei, quasi 130 milioni al botteghino, benché Judy Garland sia morta nel 1969.

La formula è la stessa che Hollywood sta applicando al revival nostalgico a catena: Quel pazzo venerdì 2 targato Disney, il sequel de Il diavolo veste Prada (20th Century Studios), il ritorno di serie come Buffy. Ne abbiamo bisogno? No. Li guardiamo comunque? Sì. È successo anche coi supereroi: si è insistito fino al rigurgito del pubblico. Si tornerà a farlo quando il rigurgito sarà passato.

I biopic che non ce l’hanno fatta: da Aretha a Amy, quando l’omaggio diventa occasione mancata

In mezzo alla sovrapproduzione, alcuni titoli si erano già persi per strada prima di Springsteen. Respect di Liesl Tommy (2021), con Jennifer Hudson nel ruolo di Aretha Franklin, si è fermato a poco più di 30 milioni: troppo piatto, troppo pulito.

Simile il giudizio per Whitney Houston: I Wanna Dance with Somebody (2022): un wiki-biopic, tirato a lucido in modo quasi assurdo, considerando la vita complessa dell’artista (interpretata da Naomi Ackie).

Back to Black di Sam Taylor-Johnson (2024) ha fatto ancora peggio: botteghino vuoto, buona l’interpretazione di Marisa Abela ma insufficiente per rendere giustizia a un’umanità come quella di Amy Winehouse.

Meglio sorvolare su Stardust: David prima di Bowie (2020), privo persino dei diritti sulle canzoni. Un ritratto incompiuto. E ancora peggio Better Man, dedicato a Robbie Williams, in cui lui stesso doppia la propria versione animale in CGI. Creativo, sì, ma oltre il limite della celebrazione di sé: 110 milioni di budget, 3 incassati nella prima settimana. Nel mondo.

E ora tocca a Madonna e Britney: la biopic fatigue è davvero arrivata?

I flop non hanno ancora scoraggiato i produttori. I quasi 300 milioni di Elvis (per non parlare dei 900 di Bohemian Rhapsody) valgono più dei fallimenti di Back to Black, Better Man e Stardust messi insieme.

Resta da capire se quello di Springsteen sia un incidente isolato o un segnale. Forse ci stiamo davvero stufando. O forse no.

Lo scopriremo presto: i progetti in arrivo non mancano. Madonna sta lavorando da anni al suo biopic — che ora dovrebbe diventare una serie Netflix — in un esercizio di controllo totale molto simile a quello tentato da Robbie Williams. Se qualcuno deve raccontare la tua storia, perché non farlo da sé?

Oltre ai già citati Michael Jackson, Bee Gees e Beatles, dovrebbe arrivare anche un biopic su Britney Spears. Il regista John M. Chu (Wicked) aveva annunciato nell’agosto 2024 un film basato sulla sua autobiografia The Woman in Me (2023), promettendo un coinvolgimento diretto della cantante per proteggerla da ulteriori meccanismi predatori. Del progetto, per ora, si sono perse le tracce.

Il fatto stesso che fosse in sviluppo è però un segnale: forse la biopic fatigue non è davvero arrivata. O forse Hollywood non se n’è ancora accorta.

Giacomo Cadeddu

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Timothée Chalamet stars as Bob Dylan in A Complete Unkwon by James Mangold
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Jeremy Allen White in Springsteen, Liberami dal nulla movie
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