
Che fine ha fatto la controcultura a Milano?
Dallo sgombero del Leoncavallo alla chiusura del Plastic, Milano sembra aver perso il suo cuore alternativo. I simboli della libertà e del disallineamento culturale cedono ai co-working sterilizzati
Controcultura a Milano: lo sgombero del Leoncavallo e la chiusura del Plastic sono gli ultimi esempi di una crisi in corso da tempo
Quando a fine agosto è stato sgomberato il Leoncavallo i media (boomer) di tutta Italia si sono svegliati all’improvviso. A Milano sta scomparendo la controcultura. Si lascino perdere per un attimo le polemiche legate a un luogo occupato. Si metta da parte la mossa politica del governo e non del Comune. Quel centro sociale è un pezzo di storia della città.
Ci si poteva muovere prima per tutelarlo, non a giochi fatti con un bando pretestuoso per ricollocarlo altrove. Si è individuata una potenziale struttura in via San Dionigi, che però è piena di amianto: non si capisce chi dovrebbe procedere alla bonifica, di certo il Leoncavallo non ha le risorse per farlo.
A Milano sta sparendo la sottocultura, il sottobosco delle lunghe notti nei club
Qualche settimana dopo ha chiuso il Plastic. L’annuncio è arrivato dal nulla, si è scritto. In realtà si sapeva che la serrata era nell’aria da un po’. E i media, di nuovo, indignati: a Milano sta sparendo la sottocultura, il sottobosco delle lunghe notti nei club. Per quanto diversi, tra le mura di Leoncavallo e Plastic si è costruita una parte integrante del carattere di questa città che adesso sembra in cerca di sé. Tutti e due sono simboli di qualcosa che di fatto sta sparendo. Sono simulacri illustri, perché tutti li conoscevano. Anche fuori Milano.
Non si può però gridare allo scandalo solo quando cadono questi baluardi. Anche se il Leoncavallo fosse ancora lì in via Antoine Watteau (o al Casoretto, la sua prima casa) e il Plastic fosse ancora lì in via Gargano (o in viale Umbria 102, la sua prima tana), la domanda sarebbe comunque la stessa: «Ma cosa sta succedendo a Milano?».

Omologazione e snobismo – c’è la Milano alternativa?
Molti sono arrivati in città da altre parti d’Italia. Qualcuno anche da altre parti del mondo. Chi per studiare, chi per il lavoro. Nessuno ci è rimasto davvero per questi motivi. La locomotiva d’Italia, le opportunità di carriera. Tutto vero, almeno fino a quando il costo della vita non si è mangiato tutti i benefici che potrebbero esserci sulla carta. Fa niente, il punto è un altro. A Milano ci si ferma a vivere perché ha sempre accolto a braccia aperte chi era stato scacciato dalle opprimenti eterne province d’Italia. È una città fondata sul lavoro e così è sempre stato, sì, ma è miope ridurre tutto alla produttività.
Milano è dall’alba dei tempi città di cultura e dove c’è cultura ci sono sempre quelle che per semplificare chiamiamo controcultura e sottocultura. La prima, alla lettera, significa: manifestazioni culturali di gruppi non protagonisti della società, anticonformisti, veicolate attraverso varie forme di produzione artistica. La seconda: gruppi sociali che non puntano a trasformare il sistema, ma piuttosto a costruirsi uno spazio alternativo al suo interno. Entrambe, non alla lettera: in un mondo che si è appiattito sempre di più su se stesso e dove anche ‘la scena alternativa’ puzza spesso di stantio, controcultura e sottocultura sono soprattutto sensazioni e attitudini. Libertà. Di ballare, di suonare, di cantare. Di confrontarsi.
Omologazione e snobismo. Troppi bocconiani o simili
Non si può dire che prima degli addii a Leoncavallo e Plastic la città fosse invasa da questo senso di libertà. Anzi: in molti posti serpeggia da un po’ di tempo un senso di inautenticità. Omologazione e snobismo. Troppi bocconiani o simili.
Potrebbe essere un altro lato della corsa all’oro immobiliare: di recente moltissimi sono arrivati qui perché accecati dalle promesse imprenditoriali e dalle filastrocche stanche di ha promosso Milano negli ultimi anni, senza nemmeno sapere dove la stava portando. E questo ha inciso sulla scena culturale estranea ai circuiti mainstream.

Dalla generazione Beat al Macao – poco è rimasto della controcultura in città
Guardando alla storia più recente, non è difficile passare in rassegna – almeno in modo parziale e per sommi capi – esperienze che hanno plasmato Milano. Nel 1966 nasceva Mondo Beat, rivista che dava voce alla costola italica del movimento di Kerouac e Ginsberg. I collettivi studenteschi si organizzavano contro l’autoritarismo accademico, si mischiavano agli operai, scoppiavano nel Sessantotto. Nel 1970 raccoglieva l’eredità di Mondo Beat un’altra pubblicazione indipendente poi diventata caso-scuola di controcultura in tutta Italia, Re Nudo. Apriva il Teatro dell’Elfo, tutto volto alla sperimentazione.
Nel 1974 Dario Fo e Franca Rame, al grido de «Il quartiere decide», occupano la Palazzina Liberty in disuso in Largo Marinai d’Italia e la trasformano nel loro Teatro “La Comune”. Nel 1975 il primo Leoncavallo, poi il Macondo in Porta Venezia. Gli anni Ottanta, i laboratori punk, il Virus di via Correggio, il Cox18. La techno nei capannoni, quando già erano cambiati i tempi e la Milano da bere si mischiava a quella alternativa. I rave, il Deposito Bulk in zona Sarpi-Cimitero Monumentale. Le serate drum’n’bass alla Pergola in Isola, quelle rock al Garigliano, la culla dei Casino Royale.
Saltiamo fino a tempi più vicini, il Lambretta e il Macao, dalla Torre Galfa all’ex Macello, ferita aperta. Abbiamo raccolto qualcosa da tutto ciò?

È calato il sipario sull’era dei club
Si può discutere di queste testimonianze, evidenziarne le problematiche. Non è stato tutto oro. Tralasciamo allora gli spazi occupati, per evitare facili critiche. Si è già detto del Plastic, si pensi ad altri club già andati. Nel 2019 chiudeva il Dude di via Boncompagni, a Porto di Mare, dove si era spostato cinque anni prima dalla sede di via Plezzo, a Lambrate. L’insegna luminosa all’ingresso – I tell you the story of your life – si spegneva a settembre, al rientro delle vacanze. Anche parlare di club non è semplice senza generalizzare e anche i club seguono dinamiche non sempre cristalline.
Per anni il Dude aveva portato Milano (quasi) alla pari delle altre città con cui si è sempre messa in competizione, almeno per la musica elettronica. Aperto ogni venerdì e ogni sabato, a molti toglieva l’indecisione su che cosa fare: bastava andare lì. «Stiamo lavorando per offrirvi nuovi percorsi, in nuovi spazi che ci consentiranno di esprimere le nostre idee artistiche, quelle che ci hanno sempre caratterizzato», dicevano sei anni fa. Non è successo. Poi apriva il Discosizer, a due minuti a piedi dal Dude, per chiudere poco dopo. La techno pian piano qui si è sempre più legata alla moda, all’evento commerciale, al profitto.
Non c’è più il Rolling Stone, non c’è più il Rainbow, non c’è più il Gasoline
Se non si vuole guardare alla techno si pensi allora al rock: non c’è più il Rolling Stone, non c’è più il Rainbow, non c’è più il Gasoline. Tutti sanno che i posti aprono e chiudono, ma la questione è un’altra: calato il sipario su questi club, non è che se ne siano alzati molti altri. Ci sono le discoteche, che non si confondano però mai con i club. Lì di cultura non se ne è mai fatta, di buono non è nato mai niente. In città chiudono i piccoli e medi spazi per il jazz, non suonano più i ritmi di quella che si definiva world music. E dire che negli anni Ottanta anche i calciatori del Milan andavano fino a Gratosoglio per le serate africane allo Zimba.


Il pericolo del performativismo fine a se stesso
Londra, Parigi, Berlino, Barcellona. Nessuna grande città è mai stata tale senza avere il suo personale parterre di sottocultura e controcultura. La crisi degli spazi di ritrovo, velocizzata dal Covid-19, ha preso tutto il mondo e ovunque si fa fatica ad andare avanti senza rientrare nei circuiti tradizionali, senza qualcuno che copra le spalle. C’è chi dà la colpa alla Generazione Z: non vanno nemmeno a ballare, non sono interessati a rituali aggregativi. Intanto però spazi che avrebbero potuto diventare luoghi dove riunirsi – come i molti ex capannoni sparsi qua e là in città – ora sono loft, co-working dall’affitto impossibile, supermercati, lotti dove nascerà qualche complesso residenziale di dubbio gusto. A differenza di altri centri urbani, qui non sono mai decollate davvero le residenze artistiche.
Non bastano da sole Accenture, Deloitte, Generali. Restano i teatri, la moda e il design, ma anche lì qualcosa scricchiola
Molte idee che sembrano buone sulla carta poi hanno spiaccicato addosso una patina di performativismo fine a se stesso. Nascono annacquate. Troppo legate a logiche di profitto, passerelle per narcisisti, giochini imprenditoriali. Sembra assurdo per una città con quasi un milione e mezzo di abitanti, che salgono a più di tre milioni per la Città Metropolitana. Per una città in continua espansione e con un passato alle spalle come quello milanese, sembra assurdo ritrovarsi a parlare della mancanza di spazi culturali che non sappiano di plastica. Questi però servono perché una città sia davvero ‘grande’.
Non bastano da sole Accenture, Deloitte, Generali. Restano i teatri, la moda e il design, ma anche lì qualcosa scricchiola. Serve un substrato organico dove sporcarsi le mani e vedere germogliare qualcosa di nuovo. A Roma resiste il quadrante Est, a Torino hanno riniziato a smuoversi le cose. È nel Dna di Milano reinventarsi, reagire. Così ci è stato insegnato. Aspettiamo.




