Die My Love, il collasso dell’intimità: vogliamo tutti la coppia aperta? 

Dal romanzo di Ariana Harwicz al film di Lynne Ramsay: la casa in Montana di Jennifer Lawrence e Robert Pattinson è la scenografia di un esperimento che riguarda tutti noi

Nel nuovo film di  Lynne Ramsay una casa in Montana è lo stress test del “nuovo inizio”

Un casale in Montana, l’aria da “nuovo inizio”, un figlio appena nato, due attori che sono quasi un’idea di coppia contemporanea – Jennifer Lawrence e Robert Pattinson – e una regista, Lynne Ramsay, che da Ratcatcher a We Need to Talk About Kevin ha fatto della famiglia in tilt il suo genere. In Die My Love, nelle sale italiane dal 27 novembre, tutto ciò che nella retorica della casa di campagna dovrebbe tenere insieme le persone – silenzio, natura, distanza dalla città – diventa il laboratorio in cui un nucleo familiare si disgrega.

Grace è una giovane madre e scrittrice; si trasferisce con Jackson nella vecchia casa di famiglia di lui: fattoria ereditata, ufficio promesso per la scrittura, un bambino arrivato quasi di colpo. Sulla carta è il set perfetto per il “nuovo inizio” sostenibile: lui che la riporta alle origini, lei che trova tempo per scrivere, il figlio come prova di maturità. In pratica: il matrimonio non si consolida. Si incrina nella routine di un dopo–parto che ha i contorni del crollo psichico. 

Ramsay gira in 1.33:1, il vecchio “quadrato” dell’Academy; stringe lo sguardo e trasforma la casa – cucine, corridoi, verande – in una serie di scatole in cui il corpo di Grace sbatte, eccede, si riduce. Non è solo il racconto di una depressione post partum: è la radiografia di una promessa fallita, quella della famiglia che dovrebbe “salvarsi” dalla città e invece non regge.

Jennifer Lawrence e Robert Pattinson: la coppia come dispositivo narrativo in Die My Love

Lawrence e Pattinson non sono scelti solo per il peso di star: Ramsay li usa come superficie di proiezione di una coppia contemporanea “plausibile”, riconoscibile. Lui porta con sé tutto l’immaginario di mascolinità fragile e romantica che si è costruito negli anni tra film Come l’acqua per gli elefanti, Bel Ami – Storia di un seduttore e pubblicità Dior; lei il corpo di un’attrice che è stata ragazzina prodigio, eroina d’azione, icona pop; qui diventa madre sbilanciata, opaca, spesso sgradevole. Vederli in una cucina stretta, sporchi, stanchi, lontani da qualunque glamour è già un gesto politico. 

Il film li mette in quadro e subito li scompone. I momenti “giusti” – una corsa in macchina, una risata, un gesto di complicità – durano poco. Prevalgono le asincronie: lui che dorme mentre lei veglia, lui che guarda il cielo con un telescopio mentre lei non riesce a guardarsi allo specchio, lui che fa piani sulla casa mentre lei non trova una stanza in cui stare bene. La coppia non è più garanzia di stabilità, ma un dispositivo narrativo per mostrare come due biografie, prese da sole, non bastino a costruire una forma di vita comune che tenga la pressione del presente.

La famiglia come infrastruttura: quando la ruvidità esplode nelle quattro mura di casa

L’omonimo romanzo di Ariana Harwicz da cui il film è tratto è un monologo incendiario: una donna isolata in campagna con marito e figlio che confessa l’inesprimibile – «sono una madre e me ne pento» – in un flusso di coscienza di odio, desiderio, stanchezza animale. Ramsay traduce quella voce in gesti e spazi ruvidi: Grace che striscia nell’erba con un coltello, che lascia gocciolare il latte dal seno e lo mescola all’inchiostro sul foglio; la casa che si riempie di piatti sporchi, giocattoli, piccoli abbandoni.

Il cuore del film è meno la “malattia” di Grace e più il carico che scarichiamo su un’unica infrastruttura: la famiglia. Quel micro–ecosistema deve curare, guarire, proteggere, garantire identità, offrire un reset alla coppia e insieme uno spazio alla creatività. Die My Love mostra cosa succede quando questo mandato diventa semplicemente insostenibile. La casa in Montana funziona come una centrale di senso sovraccarica: ogni aspettativa – sul figlio, sul matrimonio, sulla carriera di Grace – viene incanalata lì dentro, senza valvole di sfogo. Le quattro mura che dovrebbero proteggere diventano un contenitore a pressione.

Il personaggio di Jackson e il maschile che si sfila: il padre smidollato come nuovo standard

Jackson è interessante proprio perché non è il mostro patriarcale da manuale. È stanco, disperso, spesso altrove. Preferisce il telescopio puntato verso il cielo al pianto del bambino, compra una macchina che forse non possono permettersi, porta a casa un cane senza chiedere, delega ai genitori anziani le emergenze. Non esercita un potere violento, ma nemmeno un potere di cura: è una presenza che si sfila, un centro che non tiene.

È la versione aggiornata del padre borghese: non più autoritario, ma centrifugo. Non urla, semplicemente non c’è – o c’è a metà. Il suo fallimento tranquillo racconta un altro tipo di crisi del maschile: un modello di uomo che non sa più che posto occupare dentro la famiglia e non ha ancora trovato altre grammatiche. Né patriarca né alleato pienamente presente, resta sospeso. Se la casa è un sistema chiuso che accumula tensione senza redistribuirla, questo maschile “sfumato” è uno dei motivi per cui la crisi esplode proprio lì: una metà del patto che non tiene il peso, senza per questo diventare il cattivo perfetto da processare.

Dal banchetto borghese a Tolstoj, Ibsen, Albee: quando resta solo il corridoio vuoto

Da quando esiste il romanzo borghese, la famiglia è messa in scena attorno a una tavola. Pensiamo a Flaubert, a Tolstoj, alle lunghe cene di Guerra e pace: la famiglia si racconta mentre mangia, decide e si scontra mentre versa il vino. A teatro, la stanza da pranzo diventa il luogo dove l’immagine perfetta si incrina: in Ibsen, in Strindberg, in Who’s Afraid of Virginia Woolf? di Edward Albee, il salotto–sala da pranzo è una piccola dittatura domestica che implode sotto il peso delle proprie regole.

Ramsay arriva dopo tutto questo e capovolge il dispositivo. In Die My Love non c’è una grande tavolata da ricordare, nessun banchetto borghese a cui tornare con nostalgia. Il film si muove altrove: nei corridoi, nei frigoriferi aperti, nelle verande vuote. Il momento in cui “ci si mette a tavola”, il rito che riorganizza ruoli e gerarchie, è sostituito da una sequenza di fughe. Grace esce di notte, si perde nel fantasma del motociclista, desidera qualunque altrove rispetto al perimetro della casa. 

Il romanzo familiare non si gioca più nella coreografia dei pasti condivisi, ma nel tempo morto in cui non sappiamo cosa farcene gli uni degli altri. Dove Tolstoj aveva un pranzo, Ramsay piazza un corridoio vuoto.

Dalla Madonna al fuori campo: iconografie della madre che non reggono più

Da secoli, l’arte occidentale esercita il proprio controllo sempre sulla stessa immagine: madre e figlio. Madonne rinascimentali, interni borghesi ottocenteschi, fotografie di famiglia: la madre come garanzia, braccia che sostengono, volto che rassicura. Il ritratto domestico – da Vermeer alle stanze rarefatte di Hammershøi – si costruisce su un’idea di stabilità luminosa dentro uno spazio chiuso: la casa come contenitore, la madre come perno.

Nel Novecento questa iconografia comincia a incrinarsi. Le fotografie di Immediate Family di Sally Mann sono emblematiche: l’intimità familiare non è più solo protezione, è anche vulnerabilità, esposizione, possibile ferita. Die My Love si inserisce in questa genealogia ma ne rovescia il presupposto. La madre non è il fuoco stabile dell’inquadratura, ma il corpo che continuamente sfugge. Il formato 1.33:1 sembra inseguirla più che contenerla: a volte la spinge ai margini, a volte la taglia fuori. La figura materna non è un’icona su cui riposare lo sguardo: è un organismo in eccesso che non riesce a stare fermo nel ruolo previsto.

Latte, inchiostro e tempo rubato: il salario emotivo della cura

Il latte di Grace che cade sul foglio e si mescola all’inchiostro è una piccola scena sacrilega rispetto all’iconografia classica: il nutrimento del bambino, invece di andare al corpo del figlio, si rovescia sulla pagina. La cura diventa testo, macchia, produzione simbolica. Non c’è più un confine netto tra corpo materno e lavoro creativo: è lo stesso tempo, la stessa energia.

Grace è una scrittrice in blocco. Jackson le indica uno spazio come “il tuo studio”, ma ciò che vediamo è soprattutto frustrazione: pagine bianche, tentativi abortiti, sensi di colpa per ogni minuto sottratto al figlio. Qui Die My Love tocca un tema centrale per chiunque parli oggi di sostenibilità: il salario emotivo del lavoro di cura. Il lavoro invisibile – nutrire, pulire, rassicurare, vegliare – si mangia il tempo e la mente che servirebbero per produrre altro. 

La famiglia, pensata come rifugio, si rivela un dispositivo che assorbe risorse senza restituirne abbastanza. L’ufficio–studio resta un sogno in fondo al corridoio; l’unico spazio creativo possibile diventa il corpo stesso, che però regge fino a un certo punto e poi comincia a sabotare il sistema.

Nella carne di David Szalay: il controcampo maschile della stessa pressione

Questa tensione tra corpo e struttura non è solo di Grace. È la stessa che si legge, su un altro asse, in un romanzo come Nella carne di David Szalay, uscito per Adelphi nel 2025. Il protagonista, István, attraversa decenni tra Ungheria e Londra: una relazione clandestina con una donna sposata molto più grande di lui, un episodio di violenza che inquina tutto, l’emigrazione, i lavori precari, il mestiere di autista per l’élite londinese.

La famiglia, qui, è più assenza che presenza: promessa mancata, struttura che non si stabilizza. Eppure la crisi che Szalay racconta è parente stretta di quella che vediamo addosso a Grace. Anche István è un corpo sovraccarico: desidera, viene sfruttato, si sposta da un paese all’altro, regge economie che non lo riconoscono. Se Grace è intrappolata in una casa che chiede troppo alla sua mente e al suo sistema nervoso, István è intrappolato in un mercato che chiede troppo al suo tempo e alla sua resistenza fisica. 

In entrambi i casi, l’istituzione famiglia non funziona più come paracadute: è il punto in cui la violenza del mondo – economica, sociale, psicologica – si concentra. Film e romanzo, messi accanto, compongono un’unica domanda: quanto può reggere una forma di vita fondata su coppia e nucleo ristretto in un’epoca che pretende flessibilità infinita, mobilità, disponibilità continua?

Die My Love: quando il corpo diventa l’ultima lingua possibile

Le sequenze più disturbanti di Die My Love – l’autolesionismo, la porta a vetri attraversata, il bagno distrutto – non sono lì per shock. Non servono a “spiegare” la malattia di Grace: mettono in scena il corpo come ultima lingua quando tutte le altre hanno fallito. Quando la terapia, il dialogo di coppia, i consigli della suocera e del medico non bastano più, resta l’atto fisico.

È un movimento che attraversa tanto cinema familiare estremo, da Cassavetes a von Trier, ma qui senza l’enfasi del manifesto. Ramsay non fa proclami, non infila monologhi militanti sulla maternità o sul patriarcato. Segue un personaggio nel punto in cui esaurisce tutte le opzioni discorsive e comincia a parlare con la carne. L’ambivalenza resta costante: Grace desidera e rifiuta il figlio allo stesso tempo, ama e odia Jackson, vuole fuggire e restare. Le etichette con cui di solito parliamo di famiglie – “madre buona”, “padre assente”, “coppia tossica” – qui non bastano: stringono troppo, non contengono quello che accade tra quelle mura.

Verso una forma di vita comune. Die My Love ci interroga: quanto sono sostenibili le relazioni?

Guardato con la lente di una rivista come Lampoon che applica il concetto di sostenibilità anche alle relazioni, Die My Love pone una domanda: possiamo continuare a considerare la il nucleo familiare come forma di vita di default? Due adulti, un figlio, una casa acquistata o ereditata in un luogo più o meno remoto, un lavoro che permette – a fatica – di reggere tutto: è ancora praticabile, sul lungo periodo, questa struttura?

Il casale in Montana è l’opposto di un’economia circolare. È un sistema che non scambia quasi nulla con l’esterno, che non redistribuisce affetti, cura, responsabilità. Tutto si accumula dentro: latte e inchiostro, notti insonni, rancori, desideri non detti. Quando il sistema collassa, non stiamo assistendo solo a una storia di malattia mentale: vediamo la prova di stress di una forma di legame progettata per un altro tempo, esposta oggi a pressioni che non può più metabolizzare.

Die My Love: quanto abbiamo esaurito il concetto di famiglia? 

Il film si ferma un attimo prima della catastrofe irreversibile – il bambino resta al sicuro, al centro dell’uragano – ma ciò che lascia addosso è la sensazione che qualcosa, in quella configurazione, non tornerà più come prima. Die My Love non dà ricette, non propone comunità alternative, non mostra famiglie estese virtuose: mette in scena l’implosione di un modello che diamo per naturale e la colloca nel luogo più rassicurante del nostro immaginario – la casa in campagna – lasciandolo cedere.

La domanda finale, forse, non è “cos’è una buona madre?”, ma: qual è la forma minima di vita comune che possiamo ancora permetterci, senza che qualcuno debba sacrificare il proprio corpo per reggere la struttura?

Il casale in Montana è solo la scenografia più fotogenica di un esperimento che riguarda tutti. Noi. I nostri appartamenti in centro o in periferia di ritorno da lavoro. L’affitto, il mutuo, i social. Le nostre cucine inadeguate, le bollette, l’ansia intergenerazionale. Una doccia svelta e uno spaghetto per cena attorno al tavolo. Le nostre famiglie sfinite che continuiamo a chiamare “normali”; più per abitudine che per verità.

Federico Jonathan Cusin

Die My Love, ritratto di famiglia
Die My Love, ritratto di famiglia. Jennifer Lawrence e Robert Pattinson