Endelea

Wax e tessuti Maasai: la moda africana che nasce dalla colonizzazione

L’immaginario vuole la moda africana fatta di tessuti dai colori accesi e stampe, volumi ampi e strati di stoffe: la verità è che i wax non sono autentici del continente. Una storia di imprenditoria etica nel settore moda in Tanzania

Wax: il tessuto africano per eccellenza non è africano

I Wax nascono durante la colonizzazione dell’Indonesia iniziata nel 1500. In Indonesia i commercianti olandesi entrarono in contatto con le tecniche di tintura dei Batik di Giava. Per colorare i tessuti coprivano delle zone di cera o altri materiali impermeabilizzanti che poi erano lavati via con l’acqua calda lasciando solo la tintura. Gli olandesi svilupparono delle tecniche per industrializzare la produzione e rendere il tessuto più economico del batik indonesiano fatto a mano. Nonostante l’economicità rispetto ai batik indonesiani i tessuti olandesi non riuscirono a penetrare il mercato, così i mercanti di rientro in Europa dall’Asia si fermarono nei porti delle colonia dell’Africa occidentale dove invece i nuovi tessuti stampati riscontrarono un forte interesse. 

Wax: tecniche di produzione e utilizzi nelle campagne di comunicazione 

Per realizzare la stampa con metodo Prévinaire (Jean Baptiste Theodore Prévinaire uno dei primi proprietari di fabbriche tessili dei Paesi Bassi a sviluppare la tecnica a macchina per imitare i batik) il tessuto imbevuto di cera su entrambi i lati con una stampante a blocchi e poi viene immerso nel colore. Il processo è ripetuto fino a completare il disegno della stampa predefinito. In seguito il tessuto viene bollito per rimuovere i residui di cera. 

«In questi secoli i Wax hanno accompagnato l’evoluzione del continente africano – ci spiega Francesca De Gottardo, CEO & Co-founder di Endelea, brand italo-tanzaniano – sono stati usati per diffondere anche informazioni mediche per campagne di sensibilizzazione all’AIDS o per fare pubblicità alla scuola. Spesso sono utilizzati anche a scopo religioso o a sfondo politico. Sono un linguaggio a tutti gli effetti in un continente dove la scolarizzazione è arrivata molto tardi e il livello di comunicazione visivo è quello più impattante. Tutt’oggi quando ci sono le elezioni i candidati fanno stampare i wax, la propaganda politica si fa sui tessuti».

Endelea, i tessuti e i rapporti con la cultura Maasai

Endelea è un brand a metà tra due continenti, il design dei capi viene fatto in Italia e la produzione in Tanzania, utilizzando materie prime e manodopera locale. Endelea vuole promuovere la cultura africana in Europa dando un nuovo sguardo, autentico e creando lavoro e possibilità per il territorio che racconta attraverso gli abiti. «Lavoriamo con i tessuti Maasai, che sono tipici solo di Kenya e Tanzania non di tutta l’Africa. Da anni lavoriamo con piccoli produttori locali e in collaborazione con i Masai. Ogni anno facciamo un contratto con la Maasai Intellectual Public Initiative, per cui noi riconosciamo loro un goodwill iniziale a inizio campagna vendita e poi a fine campagna gli diamo il 2% di tutto quello che è stato venduto con i tessuti Maasai. Al di là del riconoscimento economico, c’è una cooperazione nella creazione degli abiti per le collezioni. Scegliamo insieme a  loro i colori giusti e i modelli, così da raccontare la cultura Maasai in modo fedele. Noi siamo solo un tramite. Il chief chairman della Maasai Intellectual Property Initiative cita sempre Endelea come caso esemplare perché generalmente devono relazionarsi con i brand per cause di appropriazione culturale».

Endelea: i tessuti Maasai e la colonizzazione 

Come i Wax anche i tessuti della cultura Maasai sono frutto della colonizzazione. I tessuti utilizzati dai popoli Maasai hanno delle fantasie a quadri che ricordano quelli scozzesi, perché furono i colonizzatori inglesi e scozzesi a portare cotone e fibre sintetiche tra le popolazioni di pastori dell’Africa orientale. I Maasai indossano strati di tessuto drappeggiato sul corpo e sulle spalle, il primo strato è solitamente poliestere leggero, poi un cotone grosso e infine l’acrilico. «I Maasai utilizzano questi tessuti perchè sono pratici e li aiutano a proteggersi dai climi della Savana e del Kilimangiaro. Quando ho chiesto ai Maasai se invece di utilizzare i tessuti sintetici potessimo usare un cotone, la risposta è stata che il cotone si rompe. Loro sono nomadi, vivono nelle tende e i recinti sono fatti di rami con le spine. L’acrilico è il materiale più resistente per le loro esigenze. Ci sono brand, anche del lusso, che hanno lavorato con i Maasai scrivendo nelle etichette 100% Maasai Shuka, mentre noi scriviamo 100% acrilico consapevoli di attirarci le critiche. Tutti i nostri capi hanno un QR code di Digital Product che certifica la nostra filiera. Preferiamo essere trasparenti e rispondere alle domande che ci vengono poste perché questi sono i veri tessuti che utilizzano i Maasai». 

L’Africa nella testa degli Europei è tutta un’altra cosa rispetto alla realtà, Endelea

«L’Africa nella testa degli europei è pura, organica, come madre natura ha voluto, ma nella realtà delle cose è la discarica dell’Occidente. Nei mercati vengono vendute cose di seconda mano o terza o quarta o quinta che arrivano dall’Europa. Per quello che loro possono, cercando di recuperare, indossano e vendono nei mercati ma la maggiorate finisce nelle discariche a cielo aperto. Quando abbiamo portato la prof del Politecnico per la prima volta all’università in Tanzania e ha parlato di impatto ambientale della moda, sono tutti cascati dalla seria, non ne avevano mai sentito parlare. Qui sono ancora molto lontani da una coscienza ambientale delle produzioni a causa del colonialismo e del capitalismo. In Tanzania, hanno fatto una mossa simbolica, esagerata, che è stata quella di bandire i sacchetti di plastica. A volte fermano i turisti e controllano se hanno i sacchetti di plastica in valigia. È così che pensano di  salvare l’ambiente in Tanzania, quando invece ci sono le discariche a cielo aperto e la gente che butta per terra qualunque cosa». 

Produzione Wax Africani in Tanzania, Endelea
Produzione Wax Africani in Tanzania, Endelea

Endelea, cultura africana e appropriazione culturale 

La tematica dell’appropriazione culturale ha animato, specialmente negli ultimi anni, il dibattito nel mondo della moda. Ma quando un omaggio o un richiamo estetico diventa appropriazione culturale? Si parla di appropriazione in riferimento all’atto di prendere elementi di una cultura (abbigliamento, acconciature o accessori) e usarli senza adeguato riconoscimento o rispetto delle loro origini. 

«Dal punto di vista legale non può esserci un beneficiario di una cultura più forte che prenda anche solo ispirazione o come nel nostro caso materia prima da una struttura più debole senza dare un compenso economico e senza dare un credito. Se noi vendessimo Endelea come se fosse italiana, senza dire che i tessuti sono tanzaniani, sarebbe un paradosso. Abbiamo istituito un cultural committee che si riunisce ogni due mesi con il rappresentante dei Masai, con il rappresentante dell’Università di Dar es Salaam, con i designer locali, e gli esponenti delle ONG locali per promuovere insieme questa cultura. In questo caso non è appropriazione appunto, ma è amplificare un messaggio. Usiamo la nostra piattaforma per dare visibilità alle tradizioni africane e facciamo in modo che siano i creativi tanzaniani a raccontare la loro versione della Tanzania. Quello di cui gli africani si lamentano è il fatto che la loro storia venga raccontata dai fotografi bianchi e dai giornalisti bianchi. Il messaggio che arriva in Europa è quello dei bambini che stanno morendo di fame delle ONG per fare raccolta fondi, quindi a fin di bene che però banalizza la situazione o dall’altra lo storytelling della politica dei telegiornali, di barconi di gente che arriva a rubarci il lavoro e a violentare le nostre donne».

Endelea: la discussione sull’appropriazione culturale è tutta bianca e serve a distrarci dai problemi reali

«Di tutti i problemi che noi bianchi rappresentiamo per gli africani, l’appropriazione culturale e il fatto che ci facciamo le treccine è l’ultimo dei problemi. È più comodo parlare della cosa piccola di cui non frega niente nessuno ma che diventa polemica invece di parlare dei modi in cui li stiamo sfruttando ancora oggi. C’è una guerra in Congo, dietro la quale ci siamo tutti noi con i nostri cellulari e le batterie a litio, di cui nessuno parla. Le priorità sono altre e quello che possiamo fare come brand è cercare di far parlare loro il più possibile attraverso la nostra piattaforma. Endelea è un progetto che porta del valore sia qui, che in Italia e in Europa, facendo vedere un altro modo di essere africani e di vivere in Africa».

Manifattura, produzioni e situazione delle lavoratrici e dei lavoratori in Tanzania con Endelea

Lo stipendio medio in Tanzania, necessario per condurre uno stile di vita dignitoso e mantenere una famiglia nelle aree urbane è 192 dollari americani al mese, secondo il report 2022 di Anker Research Network e Global Living Wage Coalition. Lo stipendio medio di un lavoratore in Tanzania è 157 dollari americani. Endelea paga in media i suoi dipendenti in Tanzania 340 dollari americani. «Ai nostri lavoratori paghiamo l’assicurazione sanitaria per loro e per i loro figli, i pasti sul lavoro, il trasporto per motivi di lavoro e offriamo attività di formazione. Per esempio il corso d’inglese che ci hanno richiesto è stato sponsorizzato da Endelea. Sembrano cose banali viste dall’Italia, ma qui non sono scontate. Nella moda il 93% delle aziende non retribuisce ai lavoratori della filiera uno stipendio equo per il costo della vita. Questo vuol dire che non si può incolpare solo il fast fashion. Mi rendo conto di essere parte del problema nel momento in cui produco nuovi vestiti, però quello che mi piace pensare è di essere anche parte della soluzione, per dimostrare che si può fare. I consumatori sono l’elemento nel mezzo che sposta l’ago della bilancia».

Endelea, la collezione Spring Summer 2024 firmata da Tiziano Guardini

La nuova collezione Spring Summer in collaborazione con Tiziano Guardini, è per la prima volta interamente realizzata in cotone organico e lanciata con la formula on demand. A ispirare le stampe, disegnate dall’illustratore e textile print designer Francesco Gulina, sono valori come la comunione tra le persone, la natura il legame con la madre terra. Endelea  ha intrapreso la  scelta del pre-ordine, per ridurre l’impatto ambientale ed evitare sprechi e giacenze. Ogni capo verrà prodotto su richiesta, realizzato dai sarti in Tanzania e spedito al cliente finale. «Ho conosciuto Tiziano alla prima Fashion Week di Endelea a settembre 2022. Siamo rimasti in contatto e abbiamo iniziato questa collaborazione basata sia su un’intesa personale tra di noi che sulla volontà comune di ridurre l’impatto ambientale e sperimentare materie prime. L’attenzione all’ambiente è molto costosa per chi fa moda, soprattutto per una StartApp. È simbolico che la prima collezione di cotone organico sia quella disegnata da Tiziano Guardini. Con il suo lavoro è riuscito a dare un’impronta poetica alla collezione che prima non avevamo».

Endelea e Francesca de Gottardo

Endelea nasce nel 2017 dopo un’esperienza di volontariato in Zambia. Francesca de Gottardo alla ricerca di nuovi stimoli lontano dalla città e dal mondo della moda in cui già lavorava ma che non la soddisfaceva, si rende conto che la moda può essere una cosa diversa da quella cultura talvolta tossica che si vive nelle grandi città. Il nome che in Swahili significa “andare avanti senza arrendersi alle difficoltà”, e racconta l’impatto sociale del brand nell’aiutare le persone che vogliono diventare fashion designer. L’obiettivo di Endelea è duplice: contribuire allo sviluppo di un’industria della moda in Tanzania e creare un dialogo tra Europa e Africa. Endelea ha avviato un laboratorio di produzione all’Università di Dar es Salaam, in Tanzania, dove investe anche parte dei ricavi nella realizzazione di workshop e nella collaborazione con scuole e università. Il team è composto all’85% da donne, con un gender pay gap pari a zero.

«C’è voluto un po’ di tempo per creare Endelea, lavoravo full time e facevo ricerche nei weekend e la sera, per mettere insieme una presentazione powerpoint. L’estate del 2017 sono venuta in Tanzania da sola con la mia presentazione. Ho scritto all’ambasciata italiana, poi all’università. Quando sono tornata, ho dato le dimissioni, ho aperto la partita IVA e ho iniziato a fare altri mille lavori come social media manager per potermi poi permettere di portare avanti il progetto. Gli amici che mi ero fatta nella moda hanno contribuito pro bono a disegnare il logo e a venire ad attaccare le etichette la sera a casa mia quando è uscita la prima collezione. Era l’estate 2018. È una storia di partenza lenta, però con capitali interamente nostri e con la voglia di dimostrare che si può fare, che un altro modo di fare moda è possibile».

Endelea, Francesca De Gottardo e il team di Endelea in Tanzania
Endelea, Francesca De Gottardo e il team di Endelea in Tanzania

Domiziana  Montello