Han Kang in Italia con Il libro bianco: un racconto di vita, morte e rinascita
Il libro bianco di Han Kang nasce dalla vita e dalla morte, dalla sorella che non ha vissuto e dalla città che è stata distrutta. L’autrice coreana per la prima volta dopo il Nobel al Teatro Dal Verme di Milano
Han Kang e Il libro bianco: il significato delle due parole coreane per dire “bianco”, hayan e huin
In coreano esistono due parole per dire “bianco”: hayan e huin. Hayan indica il bianco visibile, liscio, quotidiano: la pelle, la carta, la neve. Huin, invece, appartiene a un registro più profondo: non è solo un colore, ma un sentimento che intreccia vita e morte, apparizione e sparizione. È il bianco dei riti, della rinascita, del lutto. Il buio latente anche nella luce.
Han Kang ha voluto scrivere un libro huin, un libro che potesse evocare, come lei stessa dice, “un desolato intreccio di vita e di morte”. «Se noi osserviamo l’ombra anche se non è totalmente bianco riusciamo a vedere un bianco huin. È una parola che contiene sia il buio che la luce».
Il simbolismo del colore bianco in Il libro bianco di Han Kang
«Per prima cosa ho scritto una lista di cose bianche. Ad un certo punto mi sono resa conto che stavo scrivendo di mia sorella morta – mia madre mi raccontava spesso quella storia, forse perché ero l’unica figlia femmina. In quello stesso momento ho realizzato che questo libro non sarebbe stato semplicemente una lista di cose bianche ma qualcos’altro».
È primavera a Seul quando Han Kang decide di scrivere un libro sul bianco. Ma è solo durante una residenza di scrittura a Varsavia che inizierà effettivamente a scriverlo. La prima cosa che fa è compilare un elenco di cose bianche: ghiaccio, dolcetti di riso, magnolie, zollette di zucchero.
Oggetti neutri, comuni ma destinati a farsi densi, abitati dal significato. Il gesto della lista è l’atto di inizio. La scrittrice annota tutto ciò che le appare bianco, come un inventario minimo del mondo. Poi comincia a scendere dentro le parole, a scoprirne il peso.
Il bianco diventa così il modo per avvicinarsi alla ferita originaria: la morte prematura della sorella maggiore, nata a sette mesi in un parto casalingo, vissuta solo due ore, cullata dal suono dei “ti prego, non morire” pronunciati dalla madre ventiduenne.
Scrivere di lei la turba, ma sente che deve farlo. Scrivere Il libro bianco, scrive, è stato come stendere una pomata bianca su una cicatrice antica. Una guarigione possibile solo nella sottrazione. Il bianco non è qui il colore dell’innocenza: è un balsamo, un esercizio di resistenza. È il modo con cui Han Kang restituisce presenza a ciò che non è più.
Varsavia come città bianca e nera: il parallelismo tra distruzione e rinascita
Han Kang ne Il libro bianco non nomina subito Varsavia, ma la si riconosce gradualmente. È l’unica città europea che seppe opporsi ai nazisti e che per questo fu rasa al suolo. Varsavia è un luogo huin, come la sorella mai vissuta: esiste e non esiste, è stata distrutta e ha ricominciato.
«Passeggiavo per strada in Polonia e guardavo i palazzi. C’erano muri e pilastri che avevano un colore leggermente diverso. Ho iniziato a studiare la storia di Varsavia e ho scoperto che è una città che è risorta dalla distruzione. Ho pensato che la sua storia fosse molto simile a quella di mia sorella. Avrei voluto dare la mia vita per ricreare quella di mia sorella, per farla vivere. La ricreazione di questa città sembrava molto il processo di scrittura. Ho provato a immaginare che ci fosse stata lei al mio posto, in quella città stranamente familiare, che assomiglia alla sua vita e alla sua morte».
Varsavia e Seul viste da Han Kang: il bianco che contiene il nero
Il bianco di Varsavia è diverso da quello di Seul. Qui la neve si mescola alle ceneri dei palazzi distrutti, il ghiaccio alle ossa delle case bruciate. È un bianco che contiene il nero e ne accetta la presenza.
In questo senso Il libro bianco è anche una riflessione sulla distruzione: la città devastata come corpo violato, il corpo che rigenera le sue ferite come la città. Han Kang vede nella Polonia postbellica un dolore che dialoga con quello della Corea: Gwangju, Jeju, le ferite collettive mai elaborate, i morti cui non è stato concesso un lutto.
Il bianco diventa così spazio per un doppio lutto: quello individuale dell’autrice e quello collettivo dei popoli feriti. Eppure Han Kang riesce anche a concentrarsi sul dettaglio minimo, sul fiocco di neve che cade sulla manica del cappotto. Il dolore non annulla la percezione: la sospende. È in quel fiocco, nella sua caduta, che il bianco torna a essere semplice, vivo, temporaneo.
Han Kang al Teatro Dal Verme
Il bianco contro il nero: la visione simbolica di Han Kang
Nel linguaggio simbolico di Han Kang, il bianco e il nero non sono solo opposti cromatici ma modalità di esistenza. Il nero è saturazione, residuo. È il colore del petrolio, dell’inquinamento. È il colore più pesante del nostro tempo.
Il bianco è l’essenziale, l’assenza che purifica, ma non in senso morale. È il luogo dove le cose si spogliano di sé. In Il libro bianco il bianco non cancella il nero, lo accoglie. È un bianco attraversato dal lutto, che lascia entrare la distruzione, la memoria, la fine.
Han Kang scrive per sottrazione: ogni parola è un vuoto caricato di senso, un passo indietro verso la calma. Il bianco non è pace, ma attenzione. È il modo di guardare il nero senza esserne inghiottiti.
Il libro bianco come sequenza di meditazioni poetiche
Il testo si struttura come una serie di frammenti: brevi paragrafi, quasi meditazioni. Dalle fasce cucite per la neonata al camicino preparato dalla madre, fino alla luce lunare, al respiro congelato, alla neve. Ogni immagine è una piccola resurrezione.
Il bianco non è quindi solo un tema visivo, ma una grammatica emotiva. Han Kang trasforma l’elenco degli oggetti in un rito: ogni oggetto bianco si fa corpo, memoria, presenza.
Il libro bianco è un testo sull’impossibilità di dire, e sull’urgenza di dire comunque. Non c’è una trama, ma un ritmo di apparizioni e dissolvenze. È un libro che tenta di dare forma al vuoto.
In questo tentativo la lingua diventa pelle, respiro, gesto. È una sequenza di meditazioni, di preghiere in prosa, che riportano all’influenza della filosofia buddista.
«Sono cresciuta in una famiglia che sente molto vicino il buddismo. Ogni anno nel giorno della nascita di Buddha celebravamo accendendo delle luci. Per pregare per le persone vive si accende una luce rossa, invece per le persone morte si accende una luce bianca… Il libro bianco cerca di prestare il mio corpo a mia sorella morta, cerco di farla vivere attraverso sensazioni del mio corpo e le mie emozioni».
Il libro bianco e il Nobel per la Letteratura 2024: il corpo come memoria
Han Kang ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2024, con la motivazione che la sua opera “collega in modo unico corpo e anima, vivi e morti, in una prosa poetica e sperimentale”.
Il libro bianco, pubblicato nel 2016 in Corea e ora tradotto in italiano da Adelphi, è considerato uno dei testi che hanno definito la sua voce più matura. Dopo La vegetariana, dove il corpo era negazione, qui il corpo è memoria: non il rifiuto, ma la trasformazione.
Questo libro chiarisce la poetica dell’essenzialità di Han Kang: nessun eccesso, nessuna catarsi spettacolare. Solo la materia minima della parola, la luce che rimane quando tutto è stato tolto.
Han Kang al Teatro Dal Verme di Milano: letteratura come atto di compassione
«Mentre aspettavo, sono uscita un attimo e ho visto la luna. Era molto rotonda e bianca. L’avete vista? È un’ottima sera per parlare del Libro bianco.»
Queste sono state le prime parole che Han Kang ha rivolto alle oltre mille persone che hanno affollato il Teatro Dal Verme, la sera del 5 novembre 2025.
Con Han Kang, a presentare Il libro bianco, c’erano l’attrice Daria Deflorian e Marco Del Corona. Per la scrittrice coreana era il primo ritorno in Italia dopo il Nobel.
Il teatro si è trasformato in un contenitore di silenzio. L’autrice ha parlato del potere della letteratura come atto di compassione, come possibilità di “entrare nell’anima degli altri”. Nel buio della sala, le sue parole hanno creato un bianco mentale. Un bianco di ascolto.
Il pubblico, in sospensione, ha seguito la voce lenta, precisa, priva di ornamenti. Nessuna celebrazione, nessuna enfasi. Solo la presenza.
«Il ruolo della letteratura è quello di far immaginare. La letteratura svela le cose nascoste e dà loro un nome. E continuando a osservare le cose nascoste, noi riusciremo a dire cose che non sono mai state dette. Io prima di essere scrittrice ho un’identità di lettrice… La bellezza della letteratura è che non svanisce, non cambia mai. Io senza letteratura non potrei sopravvivere. Non è una cosa aggiunta, è una cosa fondamentale».
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