Easier to Breathe

Dopo la mostra in Via della Spiga, Robilant + Voena presenta le opere afrofuturiste di Jordan Watson nella Chiesa Protestante di Sankt Mortiz – intervista a Jordan Watson su arte, comunità digitale e razzismo

Easier to Breathe: dipingere il presente di pochi. Xenofobia e razzismo anti-nero, anche in Svizzera 

Secondo la Commissione Federale contro il razzismo, su 876 casi segnalati in Svizzera nel 2023, 327 erano legati a xenofobia e razzismo anti-nero. La maggior parte degli episodi si è verificata nel settore della formazione, sul posto di lavoro o negli spazi pubblici. Nelle tele di Jordan Watson esposte a Sankt Moritz, la comunità nera è protagonista in ambienti lussureggianti.

«Con Easier to Breathe – racconta l’artista nell’intervista a Lampoon – dipingo un possibile presente per alcuni e pianto i semi di un futuro prossimo per molti. Queste opere immaginano un mondo in cui la comunità nera prospera in spazi di lusso, gioia e abbondanza, in luoghi che storicamente ci hanno escluso. Presentando queste condizioni aspirazionali, voglio sfidare lo spettatore a considerare tutto ciò non come una fantasia ma come una realtà che meritiamo di creare e sostenere. Allo stesso tempo, sono consapevole della realtà dei fatti. Statistiche come quelle della Commissione federale contro il razzismo ci ricordano quanta strada dobbiamo ancora fare. I dipinti riguardano tanto la possibilità quanto l’affermazione. Dicono: “Il nostro posto è qui. Ci apparteniamo da sempre”».

Jordan Watson e la scoperta del paesaggio engadinese: qui è più facile respirare 

Il titolo della mostra, Easier to Breathe, evoca la dimensione del respiro, inteso sia come soffio vitale sia come purezza del paesaggio svizzero. La natura engadinese ha ispirato numerosi pensatori e artisti, tra cui Jean-Michel Basquiat. L’arte di quest’ultimo, secondo diversi critici – tra gli italiani, Achille Bonito Oliva – si relaziona all’afrofuturismo. In che modo questo contesto naturale ha influenzato la creazione delle nuove opere di Jordan Watson?

Racconta l’artista a Lampoon, «quando Robilant + Voena mi ha proposto questa mostra, il mio primo pensiero è stato: chissà com’è essere quelle montagne da cartolina di St. Moritz. Mi sono detto che lassù deve essere più facile respirare. Anche l’aria sembra più leggera. La vita deve essere più semplice lassù. Non ho potuto fare a meno di immaginare cosa deve aver pensato Jean-Michel Basquiat la prima volta che ha visto il paesaggio dell’Engadina. Che cosa ha provato, cosa ha visto, cosa gli ha ispirato i dipinti realizzati durante la sua permanenza lì?

Per molti versi, mi sento come se stessi seguendo le sue orme: un uomo nero di New York che si trova immerso in un mondo completamente nuovo. Questo contrasto è profondo. Cosa vedrò lì che scatenerà in me qualcosa di nuovo? È una domanda che mi sono posto mentre mi preparavo a realizzare questa mostra.

Le opere di Easier to Breathe sono nate dai miei sogni, immaginando un luogo che non avevo mai sperimentato prima ma dal quale mi sentivo attratto. La purezza del paesaggio svizzero, la sua forza tranquilla e la sua lussuosa bellezza mi sembrano uno sfondo perfetto per esplorare i temi di possibilità, libertà e nuove prospettive. Si tratta della continuazione di un viaggio di scoperta e di creazione».

Jordan Watson, Easier to Breathe, St. Mortiz, Robilant + Voena
Jordan Watson, Easier to Breathe, St. Mortiz, Robilant + Voena

La pittura di Jordan Watson: personaggi senza volto, specchio della comunità nera

L’artista ritrae uomini neri, e soprattutto donne, che partecipano ad attività come ciclismo, sci e sport motoristici, discipline storicamente ostili alla partecipazione dei neri. Perché i volti delle figure nei suoi dipinti sono sempre anonimi, senza tratti somatici?

Jordan Watson: «lascio intenzionalmente i volti delle mie figure anonimi e senza tratti definiti, perché voglio che lo spettatore si senta come se potesse entrare nel quadro. Quando si osserva un volto ben definito e ben dipinto, la storia diventa quella di qualcun altro, la sua vita. Quando la figura è senza volto, si apre la possibilità per lo spettatore di immedesimarsi in quel momento, di sentire che si tratta della sua realtà o del suo sogno.

Le attività sportive che ritraggo rappresentano spazi in cui la partecipazione dei neri è stata storicamente limitata. Collocando figure nere in questi ambienti, creo una narrazione visiva di inclusione, gioia ed eccellenza. Non si tratta solo di rappresentazione ma di dare una possibilità in più. Voglio che le persone guardino questi dipinti e vedano se stesse rompere certe barriere, prosperando in circostanze che un tempo potevano sembrare precluse». 

La pittura ruvida di Jordan Watson per il futuro della comunità nera, tra disegno e colore 

Come artista, Jordan Watson ha scelto in particolare il mezzo canonico della pittura per esprimere un messaggio che invoca il cambiamento per la comunità nera. In che relazione sta con il disegno e il colore?

«Il disegno e il colore sono fondamentali per tutto ciò che creo. Per me, il disegno è il luogo in cui le idee prendono forma: è come gettare le basi di una storia. È un processo ruvido e istintivo che mi permette di esplorare e sperimentare senza pensare troppo. È qui che nascono molte delle emozioni e dell’energia che muovono il mio lavoro.

Il colore è il luogo in cui l’emozione prende forma. È il modo in cui comunico l’umore, la forza e l’intenzione. Penso al modo in cui il colore può evocare una reazione istintiva: un oro deciso può sembrare lussuoso, o un blu profondo riflessivo e calmo. Il colore è anche un modo per rendere omaggio alle mie influenze e alla mia eredità culturale. Sono cresciuto circondato da graffiti e grafiche da skateboard: queste palette vibranti influenzano ancora il mio approccio alla pittura.

Attraverso il disegno e il colore, posso raccontare storie sia personali che universali. Sono gli strumenti che uso per invitare le persone a entrare in un mondo in cui l’eccellenza, la gioia e le possibilità dei neri sono al centro dell’attenzione. La pittura è il mio mezzo di elezione perché senza tempo ma è attraverso il disegno e il colore che il messaggio prende vita».

Jordan Watson, Easier to Breathe, St. Mortiz, Robilant + Voena. Foto Michele Robilant. Ph. Michele de Robilant
Jordan Watson, Easier to Breathe, St. Mortiz, Robilant + Voena. Foto Michele Robilant. Ph. Michele de Robilant

Jordan Watson e la piattaforma Instagram @love.watts per un’arte più accessibile 

La tecnologia è sempre stata un’area che l’Afrofuturismo ha utilizzato per immaginare un domani prospero per la comunità nera. Anche in relazione alla sua piattaforma @love.watts – fondata nel 2010, oggi con 2 milioni di seguaci – come si rapporta Jordan Watson alla sfera digitale?

«La tecnologia è sempre stata uno strumento per esplorare nuove possibilità, soprattutto nell’ambito dell’Afrofuturismo. Non si tratta solo degli strumenti in sé: si tratta di usarli per costruire nuove narrazioni e creare accesso dove prima non c’era. Quando ho iniziato @love.watts ho considerato lo spazio digitale come una piattaforma aperta in cui l’arte poteva raggiungere direttamente le persone, bypassando i tradizionali filtri. Per me è stato significativo, soprattutto se penso che provengo da un ambiente in cui non ho avuto molta esposizione al mondo dell’arte.

Ancora oggi, vedo la sfera digitale come un’estensione di questa visione. È il luogo in cui creatività e connessione si incontrano, dove possiamo mostrare il nostro lavoro, condividere idee e ispirarci a vicenda su scala globale. Piattaforme come @love.watts si sono evolute in spazi in cui gli artisti, soprattutto quelli neri, possono essere visti, celebrati e sostenuti in modi che in precedenza non erano sempre possibili.

Per me il mondo digitale non riguarda solo il consumo ma la creazione e la cura. È uno strumento per plasmare la cultura, sfidare le percezioni e, soprattutto, dare agli altri la possibilità di sognare in grande. È così che lo considero oggi: uno spazio dal potenziale infinito per costruire un futuro migliore». 

Limiti della comunicazione digitale: una conversazione globale rallentata dal digital divide

Oggi il digital divide lascia 2.7 miliardi di individui senza un adeguato accesso a internet, soprattutto in Africa. Se la  visone di Jordan Watson è fiduciosa rispetto alle potenzialità del digitale, ci si domanda se l’artista abbia mai considerato le altresì possibili limitazioni in relazione al reperimento di informazioni veicolate dalla sua piattaforma dedicata a un’arte più accessibile e diffusa, economicamente e culturalmente. 

«Il divario digitale è una barriera reale. È qualcosa di cui sono sempre stato consapevole durante il mio percorso. Sebbene piattaforme come @love.watts mi abbiano permesso di raggiungere milioni di persone, so che l’accesso a Internet – e di conseguenza all’arte, alla cultura e alle opportunità – è ancora un privilegio di molti.

Uno dei limiti che ho notato è la disparità di rappresentazione che può esserci negli spazi digitali. Anche con l’accesso, spesso manca la visibilità per gli artisti e le voci delle comunità meno digitalizzate o dei paesi in cui l’accesso a Internet non è così diffuso.

È una sfida e un invito all’azione. Per me si tratta di usare gli strumenti che ho a disposizione per amplificare le voci e favorire le connessioni, tenendo conto di chi deve ancora essere coinvolto in questa conversazione globale».

Jordan Watson: promuovere l’inclusione della comunità nera attraverso un’arte autentica 

Secondo Watson, «la comunità digitale ha creato spazi in cui le persone con interessi e idee comuni nel campo dell’arte possono entrare in contatto tra loro. Ha dato agli artisti e ai creativi la possibilità di aggirare i tradizionali gatekeeper e di raggiungere direttamente il pubblico, il che è molto potente. Questo senso di comunità, in cui le persone scoprono, condividono e si sostengono a vicenda, mi sembra reale. È uno dei motivi per cui ho fondato @love.watts».

Conversando con Jordan Watson, il concetto di comunità appare perno della sua ricerca artistica. Come avverte il passaggio dal partecipare a una comunità digitale al trovare spazio nel sistema dell’arte contemporanea? Si può sempre parlare di una comunità o più di un’industria culturale che segue logiche di mercato e che può speculare su alcuni temi sensibili?

Allo stesso tempo, il mondo dell’arte contemporanea e persino le piattaforme digitali possono cedere alle logiche di mercato. Questioni come l’identità, l’etnia e le disuguaglianze, che sono profondamente personali e delicate, possono talvolta essere mercificate quando vengono filtrate attraverso sistemi che privilegiano il profitto o il clamore rispetto all’autenticità. È un equilibrio precario e, in quanto persona che opera in entrambi gli ambiti, cerco di essere consapevole di questa tensione.

L’obiettivo è rimanere radicati nel lavoro stesso e nelle conversazioni che esso suscita. Che si tratti di una comunità digitale o del mondo dell’arte, l’attenzione dovrebbe sempre essere rivolta alla creazione di spazi in cui si possano instaurare dialoghi significativi e connessioni genuine. Quando questo aspetto viene meno, allora si ha meno l’impressione di una comunità e più quella di un mercato. È necessario mettere costantemente in discussione le proprie intenzioni e essere consapevoli delle dinamiche di potere in atto».

Jordan Watson, Easier to Breathe, St. Mortiz, Robilant + Voena
Jordan Watson, Easier to Breathe, St. Mortiz, Robilant + Voena. Foto Michele Robilant

Jordan Watson. Tra arte, curatela digitale e imprenditoria: pensare al di là della tela 

Artista autodidatta, curatore e imprenditore digitale. Come Jordan Watson concilia i diversi aspetti della sua carriera e che ruolo ha la pittura nella sua vita quotidiana?

«Questi aspetti alimentano a vicenda e provengono tutti dallo stesso luogo: l’amore per la creatività e la connessione con gli altri. La curatela di @love.watts mi ha insegnato a considerare e comprendere l’arte in senso più ampio; questo ha influenzato profondamente il mio lavoro di pittore. Allo stesso modo, la mia attività imprenditoriale mi spinge a pensare al di là della tela e a trovare modi per rendere l’arte più accessibile a chi, come me, non è cresciuto con essa.

La pittura, però, rimane il fulcro. È ciò che mi dà stabilità. È il luogo in cui posso esplorare, riflettere e creare senza filtri o aspettative. È parte di me. Trovo il tempo per dipingere ogni giorno, anche solo per fare degli schizzi o sperimentare delle idee. Mi mantiene in contatto con il motivo per cui ho intrapreso questa carriera e mi ricorda che la mia prima responsabilità è creare».

Alle origini dell’Afrofuturismo: rimmaginare il futuro della comunità nera 

Nel saggio Black to the Future (1993), il critico culturale Mark Dery coniò il termine Afrofuturismo per definire l’insieme di idee avanzate da tre personalità distinte durante una serie di interviste: il critico sociale Greg Tate, l’autore di fantascienza Samuel Delaney e la studiosa di musica Tricia Rose. Il pensiero di questi ultimi ha contribuito alla creazione di un’idea di comunità nera più ampio, basato su una sensibilità che altrimenti sarebbe rimasta circoscritta nella scena musicale; spesso associata a capostipiti come Sun Ra e George Clinton. Dopo 31 anni, può essere lecito domandarsi se le esigenze che guidano questo movimento siano cambiate. Cosa resta del lavoro di Mark Dery e cosa è evoluto?

Secondo Jordan Watson, «l’Afrofuturismo si è sempre impegnato nel creare una nuova narrativa, uno spazio in cui i neri non solo esistono ma eccellono senza alcun limite. Negli anni ’90 tutto ciò era rivoluzionario, ma pure sempre di nicchia tra musica e letteratura. 

Oggi, l’aspetto entusiasmante dell’Afrofuturismo è che è diventato universale. Non si tratta solo di arte ma di energia. Si tratta di usare la tecnologia, l’innovazione e l’immaginazione per aprire le porte ai neri e riscrivere il futuro. Non si tratta solo di qualcosa di nostro ma di qualcosa che tutti possono vedere e sentire. Il cuore dell’Afrofuturismo non è cambiato. Si tratta sempre di libertà. Ancora una volta, si tratta di sognare oltre i confini che il mondo cerca di imporci». 

Le nuove frontiere dell’Afrofuturismo nell’arte contemporanea secondo Jordan Watson

Prosegue Watson, «gli artisti contemporanei stanno recuperando queste basi e dando vita a interi movimenti. Stanno dimostrando che il futuro è nostro e lo stanno facendo con una creatività tale che non si può fare a meno di sentirsi ispirati.

Artisti come Toyin Ojih Odutola e Jonathan Majors stanno spingendo i confini dell’afrofuturismo in modi significativi. Toyin realizza ritratti intricati e stratificati che esplorano l’identità e le possibilità di realtà nere alternative, utilizzando in modo sorprendente la trama e la narrazione. Jonathan Majors, con le sue interpretazioni di rilievo, incarna personaggi complessi e futuristici, fondendo forza e vulnerabilità in modi che ridefiniscono la rappresentazione sullo schermo».

La mostra di Jordan Watson a Milano e l’omaggio alla scrittrice Octavia E. Butler

Al civico 1 di Via della Spiga, è stato recentemente aperto lo spazio milanese di Robilant+Voena. La galleria è stata inaugurata con una personale di Jordan Watson, intitolata Octavia’s Butler. Un nome centrale all’interno dello scenario afrofuturista, oltre ad essere la penna afroamericana più celebrata nella letteratura di fantascienza. 

Jordan Watson è entrato in contatto per la prima volta con l’opera di Octavia E. Butler attraverso uno dei suoi testi più apprezzati che fonde il tema dei viaggi nel tempo e al genere letterario slave narrative. Quanto il pensiero della scrittrice ha influenzato il suo modo di rapportarsi all’arte?

«Ho scoperto Octavia E. Butler grazie a mia sorella, abile ritrattista e avvocato appassionata di letteratura. Mi ha suggerito il romanzo Kindred (1979) e ne sono rimasto affascinato. La capacità di Butler di fondere storia, identità e fantascienza mi ha trasformato: non si trattava solo di immaginare il futuro ma di comprendere il passato per poterlo plasmare.

Quando ho progettato la mia prima mostra nella nuova galleria di R+V a Milano, rendere omaggio a lei mi è sembrato naturale. Il lavoro di Butler si concentra sulla possibilità, la resilienza e la reimmaginazione di ciò che è possibile per la comunità nera: temi che si allineano alle storie che racconto attraverso la mia arte. Questa mostra è il mio modo per renderle omaggio e onorare la sua visione e l’ispirazione che mi ha dato». 

St. Mortiz
St. Mortiz. Foto Michele Robilant

Ultra Contemporary Afrofuturism: una nuova narrazione artistica per la comunità nera

Jordan Watson fa parte del movimento artistico Ultra Contemporary Afrofuturism insieme a Rick Lowe, Mark Bradford, Nathaniel Mary Quinn, Tschabalala Self e Noah Davis. Come è nato questo gruppo?

«Ciò che ci unisce è l’attenzione condivisa per la creazione di opere che ridefiniscono le narrazioni sull’identità, la cultura e il futuro della comunità afroamericana.

Veniamo tutti da contesti e prospettive diverse ma ciò che ci accomuna è la spinta a superare i confini, sia che si tratti di materiali, di narrazione o di reimmaginazione dello spazio. Per me si tratta di dipingere scene che celebrano l’eccellenza, il lusso e la gioia della comunità afroamericana, pur tenendo conto delle complessità della sua storia.

C’è un’energia, una conversazione collettiva, che sta avvenendo nell’arte contemporanea in questo momento. Si tratta di andare avanti, di onorare il passato e di costruire nuove visioni per il futuro. È questo che lo fa sentire come un movimento, anche se ognuno di noi si dedica ai propri progetti».

Ultra Contemporary Afrofuturism: un movimento artistico? Nessun manifesto, più conversazione collettiva 

Se un manifesto è di solito alla base di ogni movimento nella storia dell’arte, l’Ultra Contemporary Afrofuturism non sembra averne uno. Forse sarebbe più opportuno definirlo una corrente. Questo gruppo di artisti pare prediligere una conversazione aperta su determinati temi che non vengono formalizzati sotto forma di parola scritta. Specchio della loro eterogeneità intellettuale e al contempo esempio del collasso della parola – se non quella vessata dei social – in arte? 

«L’Ultra Contemporary Afrofuturism non ha un manifesto formale, almeno non ancora. Si tratta più di una conversazione viva e in evoluzione, radicata nella creatività, nella resilienza e nell’innovazione della comunità nera. Ogni artista che prende parte al movimento porta con sé una propria prospettiva e, insieme, stiamo dando forma a qualcosa di dinamico che riflette il momento storico che stiamo attraversando».

Precisa Watson, «se si dovesse scrivere un manifesto, dovrebbe affrontare le complessità che la comunità nera si trova ad affrontare oggi: disuguaglianza sistemica, inadeguata rappresentanza e limitato accesso alle risorse. Il manifesto dovrebbe anche celebrare la gioia, il successo e il potere dell’immaginazione. Non si tratterebbe solo di resistenza ma anche di prosperità, di sogno e creazione di nuovi scenari. 

La bellezza di questo movimento risiede nel non limitarsi a una sola voce o visione. Si tratta di abbracciare l’individualità e, al contempo, di ripensare collettivamente il futuro dei neri nell’arte e non solo. Forse il manifesto non è ancora stato scritto ma in un certo senso ogni opera che creiamo vi contribuisce».

Jordan Watson, un breve profilo biografico

Jordan “Watts” Watson (Jamaica, Queens NYC, 1979) è un artista visivo multimediale e curatore autodidatta. La sua nuova mostra – Easier to Breath – organizzata dalla galleria Robilant + Voena è visibile fino al 6 marzo 2025 presso la Chiesa Protestante di St. Mortiz.