Jens Balzer propone un approccio etico all’appropriazione culturale e divulga gli esiti della sua ricerca Etica dell’appropriazione culturale, saggio edito in Italia da Castelvecchi editore
Jens Balzer, in dialogo con Lampoon sugli esiti della sua ricerca Etica dell’appropriazione culturale, saggio edito in Italia da Castelvecchi editore
In un dialogo avvenuto a New York, dopo aver visitato la retrospettiva History map dell’artista nativa americana Jaune Quick-to-see Smith, un gruppo di amiche (un’italiana che vive a New York, un’italiana con cittadinanza americana e un’italiana-turista) discutono della mostra. Jaune Quick-to-see Smith, esponente dell’arte contemporanea nativa americana, affronta con le sue opere i dialoghi su terra, razzismo e conservazione culturale. Tra queste una bandiera Usa composta da ritagli di giornale contenenti espressioni stigmatizzanti dei nativi americani. L’italiana-turista è entusiasta della mostra, senza farci troppo caso, parla di “indiani”. L’amica americana la corregge: “Negli Stati Uniti dire ‘indiani’ indicando le popolazioni native è un insulto razzista”.
Da dove nasce l’identificazione, sbagliata, di ‘indiano’?
La turista si interroga, cerca nella sua memoria, infine una spiegazione dai ricordi di bambina: un Carnevale, bambini vestiti con copricapo di penne e trucco rosso. «Dibattere sull’appropriazione culturale significa guardare alla propria storia», afferma il saggista e giornalista Jens Balzer, in dialogo con Lampoon sugli esiti della sua ricerca Etica dell’appropriazione culturale, saggio edito in Italia da Castelvecchi editore.
Etica dell’appropriazione: cosa significa, la spiegazione di Jens Balzer
Per ironia della sorte – o potere dell’appropriazione culturale – Balzer e la turista italiana hanno iniziato a ragionare su aspetti diversi dello stesso concetto a partire da una nota biografica: «Nella mia infanzia, nella Germania Ovest degli anni Settanta, c’era un entusiasmo per gli “indiani”, in particolare per Winnetou, un immaginario capo Apache inventato da uno scrittore tedesco della fine del XIX secolo, Karl May. C’erano film popolari e spettacoli teatrali all’aperto, e noi bambini ci vestivamo da cowboy e da indiani per giocare. D’altro canto, riproduceva stereotipi razzisti e, naturalmente, da allora abbiamo cominciato a chiederci se questo tipo di rievocazione delle culture indigene sia ancora in qualche modo legittimo». A questo interrogativo, che oggi penetra i confini dell’elaborazione storica del colonialismo da parte delle società occidentali, è pericoloso dare una risposta univoca e definita, spiega Balzer: «La questione è se coloro che lo fanno hanno consapevolezza di ciò che stanno facendo e delle relazioni di potere che permeano le loro appropriazioni. Penso che sia importante sottolineare che l’appropriazione può sempre essere emancipatrice e reazionaria allo stesso tempo. Quando parliamo di appropriazione, dobbiamo sempre parlare di ambivalenze. Le cose non sono mai così semplici come sembrano».
Chi si traveste da ‘indiano’ riconosce legittimità alla cultura di quel gruppo?
Chi si traveste da ‘indiano’ conosce le dinamiche genocidiarie, di sostituzione etnica e sfruttamento che i nativi americani hanno subito dall’Europa degli scopritori? E le loro problematiche sociali provocate dalla ghettizzazione e occidentalizzazione? La risposta più probabile è no, e può essere controproducente stigmatizzare chi si appropria in modo inconsapevole. Tralasciando l’aspetto individuale, l’appropriazione culturale è una questione etica, di potere e identitaria.

«Si tratta – in primo luogo – di una questione etica. Si tratta di se e come le persone si trattano a vicenda con rispetto. L’appropriazione culturale diventa sempre un problema quando una cultura egemonica si appropria delle realizzazioni di una cultura marginalizzata per trarne profitto. In terzo luogo, è anche una questione della nostra comprensione dell’identità. Quando i membri di una cultura criticano i membri di un’altra cultura per una certa appropriazione, stanno anche sostenendo che si possono tracciare confini netti tra le culture: alcuni appartengono a una cultura, altri a un’altra».
Il fantasma del colonialismo e della cancel culture
Queste domande, aprono una finestra sul dibattito stigmatizzato come cancel culture, ma che potrebbe essere più adeguatamente ripreso in un discorso sulla narrativa storica. La prospettiva storica europea risulta selettiva e non ribalta, appunto, la prospettiva dalla parte dei “popoli altri”. Uno dei risultati, specie nella società italiana, è il “fantasma del colonialismo”. Abbiamo parlato di nativi americani, ma potremmo andare avanti con le rappresentazioni caricaturali di arabi e musulmani – e la conseguente ‘islamofobia’ – africani e afrodiscendenti– e il conseguente razzismo contro i neri – filippini e asiatici – e il conseguente razzismo di classe verso chi è stigmatizzato con il suo mestiere, si veda e.g “i filippini” per dire “addetto alle pulizie”.
Nelle tappe di presentazione del suo libro in Italia, Balzer ha avuto modo di confrontarsi con questa “anomalia selettiva della memoria collettiva” italiana: «Mi hanno detto: In Italia, non ci sono mai stati dibattiti pubblici di questo tipo prima. Qual è la ragione? La risposta è stata: mentre la Germania ha iniziato lentamente ma sicuramente a confrontarsi con la propria storia coloniale nell’ultimo decennio o due, in Italia non c’è tale impegno con la storia coloniale; viene ignorata, negata, taciuta. Se questo sia vero in termini così drastici è qualcosa che potete giudicare meglio di me – come ho detto, è solo una valutazione che ho ricevuto dai miei interlocutori italiani. Ma una cosa è certa: un approccio etico alle questioni di appropriazione culturale porta sempre a una rivalutazione della propria storia – la storia delle relazioni di potere da cui è stata formata la propria “cultura” e identità. Solo conoscendo la propria storia si comprenderà il proprio presente e le lotte che caratterizzano questo presente». L’anomalia, per certi aspetti, ha conseguenze politiche profonde nel presente.
Politica identitaria e appropriazione culturale
Nel 2024 è l’estrema destra a capovolgere il discorso e parlare di appropriazione culturale, con toni razzisti, in nome di una cultura identitaria, nativa e nazionalista. Un esempio è il caso di Aya Nakamura, tra le cantanti francesi più ascoltate al mondo. La cantante di origine maliana potrebbe essere scelta per esibirsi e interpretare le canzoni di Edith Piaf alla cerimonia di apertura delle olimpiadi di Parigi, previste ad agosto 2024. Marine Le Pen, leader del partito di estrema destra Rassemblement National, ha criticato il fatto che “non canta in francese”, la sua “volgarità” e il “modo di vestirsi”. «I nazionalisti desiderano una cultura nella quale non ci siano differenze», spiega Balzer. Lo testimonia il piccolo gruppo di estrema destra “Les Natifs” che hann protestato contro Nakamura esibendo uno striscione che recita: “No way Aya. Questa è Parigi, non il mercato di Bamako“. Riprende Balzer: «Sognano una purezza culturale che non è mai esistita. Ma questa purezza non esiste in un mondo globalizzato, né esiste in una società diversificata. Chiunque sostenga il contrario sta mentendo – o sta rivendicando il potere di decidere cosa è culturalmente accettabile in una società e cosa non lo è. Quindi, i dibattiti sull’appropriazione culturale riguardano sempre chi ha la voce in una società».
Un esempio di appropriazione culturale positiva, arriva dalla musica
Al di là di giustizialismo e nazionalismo, l’appropriazione di costumi, consuetudini e culture “altre” ha un effetto che Balzer definisce liberatorio, ripensando alla sua infanzia: «Ho sempre desiderato essere indiano perché mi dava la possibilità di truccarmi e portare i capelli lunghi: oggi diremmo che era una versione elementare del drag. In un contesto specifico, travestirsi da indiano era un atto di liberazione dalle regole eteronormative, quindi aveva un nucleo emancipativo. Molte persone hanno trovato la loro liberazione travestendosi come qualcos’altro: gli uomini gay si sono travestiti da donne o da creature esotiche».
Un esempio di appropriazione culturale positiva, arriva dalla musica: «il jazz non sarebbe stato possibile se gli stili musicali afroamericani non fossero stati combinati con strumenti inventati da persone bianche (il sassofono!), e nella fase iniziale del jazz in particolare c’erano molte persone bianche, specialmente ebrei, che hanno dato un contributo decisivo. Il jazz dimostra che ogni cultura è sempre ibrida, e che non esistono culture che non siano sempre state il risultato dell’appropriazione di altre culture».
Emanuela Colaci
