
Vajont, Villaggio Eni, scuole: la rivoluzione delle Dolomiti parte dai siti abbandonati
Ex villaggi aziendali, scuole vuote, architetture sospese: per Dolomiti Contemporanee questi luoghi non sono rovine-cartolina, ma siti totipotenti. Intervista a Gianluca D’Incà Levis
Dolomiti contemporanee: intervista a Gianluca D’Incà Levis
Il punto di partenza di Dolomiti Contemporanee non è il paesaggio-cartolina, né la denuncia generica del turismo di massa. È una questione di metodo: come intervenire su luoghi reali, feriti, sospesi, senza ridurli a scenografie né a merci. Per Gianluca D’Incà Levis, fondatore e curatore del progetto, la montagna non è né da salvare ad ogni costo, né da vendere pezzo per pezzo. Il nodo è la qualità del gesto, il come più del cosa.
Come, non cosa: il principio operativo che guida la rigenerazione dei siti montani nelle Dolomiti
Alla base di Dolomiti Contemporanee c’è un principio semplice e radicale: il tema non è “salvare tutto”, ma lavorare con rigore sul modo in cui si agisce. D’Incà Levis lo formula con chiarezza: «Il Villaggio Eni non va salvato a ogni costo; il Vajont non va salvato a ogni costo. Devi fare la cosa giusta, in coerenza con il potenziale integrale. Tutto sta nella qualità della cosa, che è il suo come; la qualità include la bontà del movente (il perché). C’è infatti chi agisce perché si annoia e non sa star fermo: questo tipo è pericoloso. Non c’è alcuna cosa da fare, si può dire: c’è solo la necessità, se osi accingerti, di ragionare su come fare qualcosa».
Questa concentrazione sul come genera un approccio preciso: nessuna promessa di soluzioni definitive, nessun annuncio di “progetti risolutivi” garantiti. «Non promettiamo soluzioni definitive. Non garantiamo mai l’esito finale. Non lavoriamo in un sito dicendo: “Sicuramente la risolveremo”. Forse la risolveremo, se faremo cemento, se verranno altre menti distese, se attecchiranno le migliori reti, forse no, se prevarranno le inconcludenti pochezze, le calcolazioni estemporanee, certe superficialità legate al mercato e non al valore reale».
In questo quadro, la rigenerazione non è il maquillage linguistico di operazioni immobiliari, ma una pratica faticosa, legata alla responsabilità del gesto e alla coerenza tra contesto, potenziale e intenzione.
La totipotenza dell’oggetto inesausto: ex Villaggio Eni, Vajont e i siti riprocessabili come motori di civiltà
Dolomiti Contemporanee non usa il lessico della rigenerazione come slogan territoriale. Non costruisce una teoria astratta: mette in campo una pratica. Uno degli strumenti chiave è la nozione di totipotenza dell’oggetto inesausto – il sito riprocessabile.
«Totipotente è un termine usato per le cellule staminali: indica il loro potenziale di generare o di rigenerare tessuti, a monte della determinazione applicativa in uno specifico ambito funzionale del corpo – diciamo del corpo del paesaggio, se usiamo questa parola in accezione metaforica generale».
Il ragionamento diventa concreto con l’ex Villaggio Eni a Corte di Cadore: «Se e quando riattivi l’ex Villaggio Eni, in modo poietico-sperimentale o strategico-strutturale, attraverso un impegno necessariamente qualitativo, ciò non andrà esclusivamente a vantaggio della proprietà del sito e del paese di Borca. Quel luogo rappresenta un’azione innovativa, allineata – grazie alla politica architettonica di Gellner e al suo rapporto con Mattei – a una visione di territorio propulsiva e positiva, non opportunista. Quindi il suo valore – dell’oggetto in sé – va oltre il contesto locale, per farsi luogo e azione di Civiltà».
Lo stesso vale per il Vajont, luogo simbolo di catastrofe e paralisi: «Un luogo emblematico per chi dice di trattare il tema della rigenerazione. Anche in questo caso, il significato di questo luogo segnato esubera l’area geografica a cui appartiene e chiede altri segni. Non luogo di mera commemorazione, ma postazione combattiva da cui lanciare protrusioni e filamenti poetici e progettuali, contrastando la paralisi».
I crateri del paesaggio: siti spenti, strutture abbandonate e problemi specifici come opportunità di trasformazione
Il lavoro di Dolomiti Contemporanee si concentra sui crateri del paesaggio: strutture, infrastrutture e aree territoriali abbandonate o sottoutilizzate, ancora potenzialmente utili a chi vive in montagna e a chi la attraversa, ma lasciate in uno stato di sospensione.
L’approccio nasce da una contraddizione produttiva. Da un lato, la volontà di concentrazione: attenzione tesa, solitudine, tempo, spazio, silenzio, allontanamento – condizioni necessarie per capire dove si è e cosa si ha intorno, leggere in profondità invece che restare nel rumore di fondo delle banalità. Dall’altro lato, un rifiuto netto del rifugio, della capsula protettiva, della villeggiatura culturale.
Nessun sito viene reinglobato come capsula preservativa o ovetto ricreativo. L’obiettivo è stare al centro dello spazio, rimescolarne le densità, spingere fuori flussi di fiamma intelligenti. Qui la critica alla retorica della sostenibilità è esplicita:
«In questo territorio montano, sentiamo pronunciare espressioni come sostenibilità e risparmio di suolo da dieci o venti anni: retorica vuota, parolette malefiche, infruttuose e dannose. Una parola, o concetto, ha senso solo quando si definisce in accezione operativa, ammesso che si voglia operare qualcosa; ovvero quando diventa parte di un programma d’azione concreto, di un logos. Queste parole invece vengono pronunciate e tradite nella pratica quotidiana dei pensatori e amministratori e sviluppatori (sedicenti) della montagna e del suo cosiddetto sviluppo: un’ignobile bêtise e un approssimativo mercato per il turista».
In montagna, come altrove, i problemi specifici definiscono anche le opportunità. È su questi che Dolomiti Contemporanee interviene, trasformando i crateri in laboratori operativi, non in oggetti da contemplare.
Arte e ricerca come enzimi trasformativi: Nuovo Spazio di Casso, Two Calls for Vajont e l’arte che apre, non decora
Dal 2012, nell’ex Scuola elementare di Casso, nel Vajont, Dolomiti Contemporanee sviluppa un intendimento creativo-propulsivo. «Lavoriamo insieme a centinaia di partner, per compiere una ricerca che ogni anno trova espressione plastica e concreta in una mostra, e in molte altre attività connesse. La mostra non è altro che un punto di raccolta o passaggio di ricerche organiche che muovono l’attorno», racconta D’Incà Levis.
Nel Vajont, a Corte di Cadore e in tutti gli altri siti – ad oggi almeno una ventina – il lavoro comprende anche e soprattutto l’arte contemporanea. La scelta non è ornamentale:
«È un modo per evitare la banalità, una delle più perfide forme del male e del mal fatto. L’artista – se è bravo – mantiene una forte autonomia di pensiero – non per egoismo – e si annoia di ripetere la stessa definizione o interpretazione di un oggetto. Il suo cervello, mente, spirito, si libra, e muovendo l’aria egli cambia il cielo, che non stalla più. Quindi egli rimette continuamente in discussione il significato e l’identità delle cose e le loro relazioni di senso: è esattamente questo che occorre per evitare di ripetere sempre le stesse formule, sovente vuote».
Nel Vajont, la sfida è ancora più delicata: «Nel Vajont bisognava pur arrivare a dire che non è vero che quella è la terra dei morti. Un luogo forte e critico, dove dimostrare che arte e cultura non sono inutili, ma responsabili e necessari enzimi trasformativi, anche se spesso lo diventano, inutili, quando si limitano a decorare, senza costruire pratiche strutturali di pensiero e di azione e reazione».



Per questo il Nuovo Spazio di Casso non viene chiamato museo, ma motore: «Perché? Perché spinge e inietta, crea corrugamenti, accende la terra, rifiuta le logiche commerciali (vender montagna), si occupa di letteratura spaziale».
La stessa intransigenza si ritrova nel rapporto con gli artisti celebri. Two Calls for Vajont, concorso internazionale ideato nel 2014 per il cinquantenario del disastro, non ha come obiettivo la commemorazione statica, ma la rigenerazione del paesaggio ferito attraverso arte e architettura contemporanee.
«Tra gli artisti invitati vi era anche Joseph Kosuth, che certo equivocando il senso del ragionamento chiese quale fosse il budget per il progetto. Gli dicemmo: “Non sei qua per vincere, non hai ancora vinto; sei qua per capire se sai contribuire ad una riflessione profonda su questa terra”. E così Kosuth andò via senza budget, a cercarsi altre ribalte pagate. Noi invece siamo rimasti, non c’è ribalta per noi, ma un lavoro da fare e ribaltamento e parola. Dolomiti Contemporanee è un editore della montagna che non scrive guide né libri di viaggio, ma esplora la crepa e ci infila una protezione ad espansione».
Cantieri di formazione, neuroalpinismo e laboratori del paesaggio: i siti come scuole attive e non come prodotti turistici
Accanto all’arte e alle strategie di rigenerazione, Dolomiti Contemporanee lavora sulla formazione. I siti abbandonati o sospesi vengono trasformati in laboratori della produzione e formazione culturale, aperti a università, scuole e istituti italiani ed esteri, e a pratiche di ricerca come il neuroalpinismo, che indaga la relazione tra corpo, quota, percezione e pensiero.
«Ci occupiamo di formazione intellettuale e culturale, ovvero delle consapevolezze; vengono studenti e docenti a studiare paesaggio, architettura, archeologia industriale, montagna, e le loro commistioni, proponendo nuove visioni, possibilmente non rigide, né necessariamente legate alla volgarità dei traffici di risorsa, spesso condensate nelle parole turismo, incoming, management della risorsa male intesa, e così via, via da qui», prosegue D’Incà Levis.
I siti – pubblici come il Vajont, privati come Corte di Cadore – diventano cantieri ospitali: «Mettiamo a disposizione della ricerca, e più in generale della formazione della coscienza e dell’intelletto e della cultura e del pensiero, risorse che giacciono inutilizzate o languono, mai più ripensate e inerti… perché inerti sono coloro che dovrebbero ripensarle, mentre chi opera insieme a noi cerca la loro Rivoluzione».
La montagna, in questa prospettiva, non è un set per flussi turistici guidati, ma un dispositivo di produzione di conoscenza e di forme nuove di abitare il territorio.
L’immaginazione oltre le cinque stelle: UNESCO, Villaggio Eni, Hotel Paradiso e la critica alla montagna-mangiatoia
Il lavoro di Dolomiti Contemporanee non prevede di trasformare ogni architettura abbandonata in museo o, peggio, in albergo. L’ex Villaggio Eni ne è un esempio centrale: «L’ex Villaggio Eni non basta a sé stesso se continui a trattarlo (o a non trattarlo nemmeno) come il cenotafio di Gellner e Mattei. Questi luoghi debbono – e possono – essere liberati dalla loro schematica e petulante riproposizione della forma passata, per essere proiettati verso un futuro utile a tutti».
Dall’altro lato, D’Incà Levis mette in discussione anche la protezione paralizzante: «Lo status di bene UNESCO, ad esempio, molte volte, mentre cerca di proteggere la risorsa, la rende indisponibile a chi la vive, inibendogliene l’uso: questo è un errore risibile, che va combattuto».
L’opposto – la mercificazione totale – è altrettanto distruttivo. L’esempio dell’Hotel Paradiso di Gio Ponti in Val Martello è eloquente: «Quell’oggetto speciale, mica magico ma non ordinario, è rimasto sospeso per decenni alle possibilità e al paesaggio, una cautela preservatrice. Ora hanno deciso di farne un albergo a cinque stelle. Che spiccata immaginazione creatrice. Fine della possibilità di pensiero. In definitiva: non devi proteggere troppo; non devi vendere tutto. Nel primo caso sei un passivatore. Nel secondo, uno sciacallo. E poi: esistono le idee? O la montagna è un mercato-mangiatoia, ed oramai esiste esclusivamente la possibilità di farci strutture per passanti, che pagano ma non producono? Capiamo ancora questa parola: produzione?».
La critica colpisce sia le retoriche immobiliari che le politiche di tutela incapaci di generare uso vivo e pensiero.
Montagna piena, vuoto di senso: overtourism, rumore di motori e perdita delle specificità dolomitiche
Dentro questo quadro metodologico si colloca anche la critica diretta alla montagna “piena”. Le Dolomiti, oggi, non sono più solo il territorio dell’immaginario alpinistico, dove pochi si muovevano in cerca di solitudine ed elevazione. Sono fatte di lunghe code, moto rombanti sui tornanti, alberghi che moltiplicano i posti letto: un turismo a regime che ha trasformato ogni metro quadro, o quasi, in risorsa economica.
D’Incà Levis descrive così lo scarto percettivo: «Quando sei in montagna ad arrampicare o a camminare per prati o boschi, e senti all’improvviso il rombo delle moto sui tornanti, quel luogo cede e perde alcune delle sue specificità, perché quelli sono i suoni del traffico, dell’autostrada. Tocca andare a scalare in una valle più distante. Questo troppo pieno porta un vuoto di senso. È ovvio. Come si fa a tutelare le caratteristiche intrinseche di un ambiente?».
Non è nostalgia, né snobismo montanaro. È una questione di soglie e di accesso: «Non puoi tutelare o viver bene un ambiente quando il suo richiamo pianificato e l’impatto demografico son troppo spinti, la fruibilità eccessivamente agevolata. Oggi la montagna è accessibile, e questo è insieme un privilegio della libertà, un pericolo e una condanna. Se vuoi fare esperienza di quell’ambiente per quello che esso è, devi frequentarlo nei momenti in cui non c’è l’intasamento globale. Altrimenti, la sua realtà viene interdetta, perduta, disfatta».
In questo senso, Dolomiti Contemporanee agisce nei vuoti lasciati dal pieno: nei crateri del paesaggio, negli spazi in cui il turismo non ha ancora omologato tutto, la montagna torna a essere un luogo di produzione di idee e di forme di vita.
Biografia e geografia della rigenerazione: chi è Gianluca D’Incà Levis e cosa fa Dolomiti Contemporanee
Gianluca D’Incà Levis è fondatore e curatore di Dolomiti Contemporanee, progetto culturale nato nel 2011 che opera nella rigenerazione di siti e architetture abbandonate nelle Dolomiti e fuori da esse, attraverso arte contemporanea, ricerca, formazione, neuroalpinismo e pratiche trasformative.
Dal 2012 lavora al Vajont, dove ha avviato il Nuovo Spazio di Casso, Centro per la Cultura Contemporanea della Montagna e del Paesaggio. Nel tempo ha collaborato con centinaia di partner – artisti, università, istituzioni, enti territoriali, aziende, fondazioni – contribuendo a trasformare una ventina di siti, in modo temporaneo o prolungato, in motori culturali aperti alla ricerca e alla sperimentazione.
Questi luoghi, integrati gli uni agli altri, danno forma a una geografia e a una politica della rigenerazione territoriale montana che rifiuta la montagna ridotta a parco giochi o a mausoleo, e prova a restituirle ciò che spesso le viene sottratto: la capacità di produrre senso, pensiero e futuro.




