
Il meglio di un mese di sfilate? Dieci uscite valgono un ragionamento
Dieci uscite su oltre duemila: una selezione che chiede un ragionamento, su quanto abbiamo visto in un mese senza interruzione di sfilate – niente plastica, niente stampe, niente colori fosforescenti
Il mese delle sfilate: dieci uscite su oltre duemila
Il mese delle sfilate si chiude a inizio ottobre. In questa pagina, una selezione di soltanto dieci uscite: una scelta di dieci uscite su tutte – quante saranno, duemila, tremila uscite? In inglese si dice look – ma non vorrei usare una parola inglese per un testo italiano. Si può azzardare che ogni sfilata è composta da una media di cinquanta uscite, chi scende a quaranta chi arriva a ottanta, se insieme sono presentate le collezioni uomo e donna. In questo testo scegliamo soltanto dieci uscite – quelle che si potrebbero intendere come le migliori, ma possiamo lasciare questo aggettivo forse per il titolo, che serve ad attirare attenzione.
Dieci uscite su oltre duemila. Contando le sfilate e alcune presentazioni. Sono troppe, vero – a conferma di come il sistema moda stia collassando nello spreco e nel consumismo. I fatturati scendono, la preoccupazione sale. Alcuni analisti dicono che il 2025 sarà migliore – ma fuori dall’industria, parlando con il grande pubblico, è tangibile un sentimento di fastidio e di insofferenza nei confronti della moda.
Dieci uscite su oltre duemila: osservazioni, ragionamenti a lungo termine
Dieci uscite su oltre due mila, lo ripeto. Sfilate in quattro città: partendo da New York, Londra, Milano e Parigi. Se chi legge vuole intenderle come le migliori, bene per me – ma non sottoscrivo. Io descrivo, niente di più. Qui su Lampoon non vorrei mai usare aggettivi: non diamo valutazioni né opinioni: proponiamo osservazioni – sta poi a chi legge, formarsi un’opinione. Per chi scrive, queste dieci uscite sono le più idonee a evolversi in un ragionamento.
Solo quattro anni fa, c’era la pandemia – si diceva che tutto sarebbe cambiato, invece tutto è tornato identico al 2019. La stessa fretta, la stessa esagerazione. Una comunicazione autocompiaciuta e il prodotto prima del messaggio – volendo continuare a spremere una clientela con poca cultura ma con molto denaro che vuole emulare i personaggi famosi preferiti. Il meccanismo è un vortice: più sprofonda, più si rinforza. Queste mie frasi possono apparire come tesi senza dimostrazione: potrei dare esempi e controesempi, ma rimane che si può continuare sia a opinare sia a pontificare.
Per avere Hermès ci sono voluti duecento anni quasi. Fendi l’anno prossimo conta cento anni. Cerco un’analisi più logica. Oggi, le aziende sono guidate dai manager, non più dai proprietari fondatori. Le aziende appartengono a fondi che devono speculare su meccanismi finanziari, ricavi e profitti. Non ci può essere spazio su un ragionamento a lungo termine, perché la valutazione dell’operato di un manager è sull’arco temporale di un anno o di tre anni. Il ragionamento a lungo termine oggi è reso impossibile dall’analisi finanziaria che consegna dati semestrali – rimane che il ragionamento a lungo termine è stato l’ingranaggio che ha costruito i marchi.
Dieci uscite su oltre duemila: niente stampe da tappezzeria, niente colori fosforescenti, niente plastica
Ancora, dieci uscite su oltre duemila. Da dove cominciare? Scartiamo i tessuti stampati – laddove per stampare su tessuto hai bisogno di solventi chimici, fibre sintetiche che assorbano l’inchiostro senza sbavare. Perché dobbiamo poi vestirci con tovaglie, come se la nostra pancia sia una parete per carta da parati e le braccia bastoni per tende? Provate a vedervi estraniandovi da questa voglia di tappezzeria: perché dovete assomigliare a un vaso di fiori, a una bandiera a pois, a una coperta indiana? Il vostro rigore intellettuale non vi porta ad abbassare il volume del rumore? Alla stessa stregua, nessun colore fosforescente, aggressivo: da chi volete farvi notare neanche foste un semaforo al neon? State davvero sognando che tutti si voltino per voi?
Dieci uscite su duemila. Non troverete plastica, perché non ci mettiamo addosso quello che più ci sporca. Eccola, l’illusione – perché è impossibile vestirsi senza plastica. La plastica è ovunque. Sporchi saremo lo stesso – nylon, poliestere, elastan. In questa selezione cercheremo di evitare la plastica, per quel poco che è possibile.
Allo stesso modo, eviteremo le uscite commerciali – ovvero quei vestiti che escono in una sfilata e che potrebbero già essere nel nostro armadio. Tutti continueremo a vestirci con magliette bianche – ma questo non significa che ci interessi vedere una maglietta bianca in sfilata. Alcune sfilato lavorano solo sullo styling: un pensiero di assemblaggio, pezzi che da soli non noteresti e che prendono forza in un montaggio – ma le sfilate che destano interesse sono quelle che lavorano sul design. Capi che lavorano sul materiale, sul taglio, sullo sforzo di evolvere in un processo industriale un’idea artigianale. Per chi non è del settore, può sembrare assurdo anche solo immaginare quanto sia complesso industrializzare un’alternativa al semplice bottone. Si usa la parola craftcore: quando l’idea creativa nasce dalla risorsa della manifattura; quando il creativo sviluppa l’abilità della manifattura e non quando la manifattura deve trovare soluzioni per idee del creativo.
Diece scelte, quindi: in ordine di apparizione:
1. Alaia – uscita numero sette
New York. L’immaginario di Alaia si costruisce su una maglieria elaborata, elastica che stringe il corpo umano come se la gravità non esistesse. Una maglieria resa possibile dall’uso fili sintetici. Si può dire che vestiti come questi non si buttano in lavatrice, ma rimane che oggi una creatività basata sulle proprietà di lycra e poliestere è una creatività poco contemporanea. Di canto opposto e a favore, la linearità della forma e del disegno presentano un atteggiamento che partecipa al discorso della moda attuale. L’uscita numero 7 è un unico capo, un cappotto di denim: la cucitura è sfasata sulla vita, il bavero si scosta dal riferimento agli anni Settanta da dove un capo così proviene, e trova una cadenza borghese. Probabile che il denim sia tessuto in cotone mescolato a elastan, che ne diminuisce il riguardo – ma (uno) non mi è dato confermarlo, (due) la forma che si produce ottiene rispetto.

2. The Row – rilascio numero due (presentazione)
New York. Ancora un cappotto. Il tessuto è una navetta di cotone, una gabardina, forse cerata. Il tessuto è abbondante sul fronte: non si tratta di un disegno inedito, il primo a proporre questa sartorialità fu Yves Saint Laurent, che a sua volta aveva elaborato una intuizione di Cristobal Balenciaga e che successivamente Giorgio Armani ha stilizzato. Il cappotto aperto risulta ingombrante al passeggio, ma piacevole per la vestibilità sul corpo. Quando allacciato, ritrova la geometria. Il colore è quello della terra, del fango, nella coerenza identificativa di The Row. È un momento di risalto, per The Row, che riesce a potenziare il quiet luxury – ovvero, la moda che non è moda ma abbigliamento ben fatto.

3. JW Anderson, uscita numero tredici
Londra. Pannelli di maglieria a costa, anche qui, probabile ci sia il supporto in poliuretano e fibre elastiche. Il macro-intreccio è un azzardo sul disegno, forse difficile da indossare. Uno di quei pezzi che si potrebbe dire quando mai una donna lo mette – però, una volta che ce lo ha addosso, se ne crogiola. Funziona la volumetria, il movimento sul corpo, la contraddizione di ogni aderenza che deve mettere in mostra la sensualità. Vestirsi può diventare una voglia intellettuale. Jonathan Anderson disegna i costumi dei film di Guadagnino – non abbiamo ancora visto Queer, ma questo pezzo è ancora una chiacchiera sul tennis di Challengers.

4. Burberry, uscita numero uno
Londra. Il design diventa dramma senza cadere nel romantico: funziona per azzardo sartoriale, per cromia coerente, per il dettaglio della scarpa viola che stona ma chiude il pensiero come un punto a capo. Le cinghie sui polsi, le cinghie sul fronte delle spalle. Il bavero rettangolare, la rivoluzione di una gabardine inglese – o di una giacca da gendarme. Daniel Lee sembrava non essersi ancora ripreso dal trasloco; sembrava che Londra non lo stimoli quanto Milano. Con questa collezione forse si riaccende: il design sa come elaborare i codici del trench. In questo momento Burberry non è in forza: se ne può dare la colpa al management, alla comunicazione timida, o a una collezione che per quanto consistente da un punto di vista creativo, forse non riesce a essere commerciale.

5. Antonio Marras, uscita numero quarantasette
Milano. Il rischio è l’etnico, durante tutta la sfilata. Troppe stampe, troppo romanticismo, troppo di troppo – ma poi esce questa gonna che nasce dal cappello, una giacca al taglio bar di Christian Dior, più morbido. Listelli di paglia, tagliati su lunghezze diverse per produrre il volume. Potrebbe essere una lavorazione solo manuale, di cuciture – ma si tratterebbe di alta moda. Qui siamo negli abiti che troveremo pronti in negozio, quando le soluzioni tessili che sono state trovate permettono la riproducibilità. Dalla Sardegna, con questa uscita, Marras trova un punto di distanza dal costume. Si sofferma sul dialogo con la storia, ma si ferma sull’attualità.

6. Del Core, uscita numero undici
Milano. Il riferimento a Prada è leggibile – però la monocromia e la ruvidità del tessuto, oltre alla borghesia dell’intento commerciale, trovano un equilibrio per un vestito che se potesse avere il giusto supporto mediatico, di reputazione e non di numeri, potrebbe lavorare con efficacia su Del Core per l’immaginario collettivo. Tutti noi potremmo saper riconoscere in una sagoma geometrica dalle giuste dimensioni, una casa di moda che potrebbe restituire potere alla settimana della moda di Milano. Qui in città servono i nomi indipendenti e in ascesa, da affiancare alle case dal commercio mondiale. Questo abito trova la basicità sartoriale: è un grembiule con le bretelle – ma le proporzioni possono tradurlo in un vestito per Babe Paley fotografata da Horst.

7. Bottega Veneta, uscita numero cinquantuno
Milano. A volte una sfilata non è lo sviluppo di un’idea, o magari anche due, nella rotondità di una narrazione – a volte, una sfilata è un guardaroba, come succede qui per Bottega Veneta. La sfilata non è un esercizio di styling, ma appunto si tratta di un guardaroba: scorrendo la collezione, non c’è un disegno che segni una novità – se non le prime gonne pantalone, con una caviglia scoperta e l’altra no, che tralasciamo. Ci sono addirittura cadute fuori luogo – come una macro-stampa alla maniera zebrata. A lasciare il segno è l’insieme, quello che rimane negli occhi: un equilibrio, una misura. Matthieu Blazy da Bottega sembra non dover fare sforzo: non ti deve impressionare. L’uscita che teniamo è la numero 51, per l’uomo: dove la sagoma delle spalle, la larghezza dei pantaloni, il bavero con l’asola rossa – i tessuti con colori naturali, lane, cotoni, lino.

8. Saint Laurent – uscita numero ventidue
Parigi. La rigidità della sagoma anni Settanta, con quelle spalle rigide come un’armatura, ortogonali rispetto all’asse del corpo come se tutti noi potessimo trasformarci in un disegno sul foglio, si scioglie lungo le braccia e lungo le gambe avvolte nel miele. Finalmente Anthony Vaccarello liquida quell’immaginario inventato ormai più di dieci anni fa da Hedi Slimane, e consolida una identità propria per Saint Laurent. Lo fa gettandosi e immergendosi in quegli anni Settanta che YSL aveva sublimato. Ci concentriamo sulla prima metà della sfilata. La cuspide, se vogliamo trovarla in questa parabola senza soluzione di continuità, è l’uscita 22 – ma solo perché dobbiamo sceglierne una tra le molte. Qui il rischio di fare costume trasformando Mica Arganaraz in un giovane YSL con gli occhiali dalla montature e i capelli ben pettinati, riesce nell’intento di farci sorridere senza scendere nella caricatura. La seconda parte della sfilata, tralasciamo: coerente con l’immaginario scelto come riferimento, ma tessuti troppo colorati, troppo lucidi, troppo lavorati, posticci.

9. Courrèges, rilascio numero uno (presentazione)
Parigi. Succede che con la prima uscita si è già detto tutto – come con gli incipit di un romanzo. Design sartoriale così semplice che sembra ci sia già da sempre eppure sa di nuovo. Il cappuccio, o meglio la cappa che parte dal limite delle spalle. Un disegno sicuro di sé si può permettere il riferimento a quei volumi fotografici di Cristobal Balenciaga. La rigidità e la consistenza si spera siano ottenute con la qualità della pelle e non con il supporto di plastica (ma più probabile che qualche supporto plastico ci sia). La pelle, e sul suo impatto nella filiera produttiva: elemento di scarto, ma scarto dell’industria più inquinante. Il settore del lusso dovrà presto presentare trasparenza e onestà nell’approvvigionamento della pelle – nel frattempo, bisogna porre la domanda senza dare la risposta. Scorrendo la collezione, si nota il disegno della scarpa: la fascia ad altezza costante, dal tacco alla caviglia.

10. Loewe, uscita numero cinquantadue
Parigi. La sfilata comincia con veli trasparenti stampati, su struttura che giocano con le vecchie crinoline in ossa di elefante. Non se ne comprende l’attualità: probabile l’intento di queste prime uscite sia editoriale, ovvero abiti che possano aiutare a produrre immagini di impatto sui magazine. Sorvolando quindi i primi tre capi, si arriva alla quarta uscita, dove appaino pantaloni giocati su una pence laterale, su un abbondanza di tessuto che diventa drappeggio. Questi pantaloni sintetizzano la sfilata: si ripetono come un filo conduttore. Persiste l’alternanza alle inutili crinoline che forse però aiutano, per reazione, a dare risalto al volume dei pantaloni. Bluse e casacche svasate, corolle ribaltate, anche in coccodrillo. L’uscita che vale la citazione è la numero 52, dove i pantaloni diventano un abito completo.

Menzione finale: Celine
Hedi Slimane non sfila, rilascia un video. La sfilata non appare sull’applicazione di Vogue Runway, il sito dove noi addetti ai lavori guardiamo quasi in diretta tutte le sfilate. Hedi Slimane non vuole lavorare con Vogue, non apprezza la direttrice di Vogue, non ammira il lavoro editoriale che viene portato avanti da Vogue. Esiste il rumore che dice Hedi Slimane prossimo da Chanel – questa sfilata sembra una provocazione: come a dire, io sto già facendo Chanel, questo sarà il mio Chanel, io voglio fare Chanel, se non mi fanno fare Chanel, lo faccio lo stesso – io sono Chanel. Altro rumore: la proprietà di Chanel vorrebbe Slimane, il management è contrario. Karl Lagerfeld aveva indicato lui come suo erede. Niente di confermato – una sola certezza: Hedi Slimane è si muove su binari diversi da quelli su cui viaggiano gli altri.