full look Prada_Photography Boris Ovini, styling Niki Pauls

La Moda nel 2025: la creatività si deve imporre limiti e regole

La creatività non si espande in superficie, ma scende in profondità. Limiti, restrizioni, regole – sono tecnica per nuova abilità di design: niente sintetico, solo fibra naturale: che sia finalmente futuro?

Il rigore della creatività nella moda – i designer devono imporsi limiti e regole

Qualcuno alza un ciglio: imporre limite alla propria creatività è l’opposto di quello ti piace sentirti dire. L’opposto di quello che ti aspetti ti voglia dire un mentore o un maestro o semplicemente un datore di lavoro: solo il migliore tra questi saprà spiegarti che si tratta di prospettive per ogni tua abilità. Il recinto è dato – e oggi deve essere rispettato. Non si può usare quello che sta fuori da questo recinto – ovvero, quasi tutto: i colori sgargianti e brillanti, e così le stampe; i fili di nylon che tutto riescono a tenere; le imbottiture in poliuretano; le resine, le plastiche; i fili elastici che tutto permettono di indossare e tenere. Cosa rimane dentro il recinto, a disposizione delle tue mani, per dar espressione alla tua creatività? Niente? 

Qualcosa rimane: il vero maestro tra i tanti che parlano ti saprà spiegare che la creatività non si espande in superficie ma scende in profondità, elabora, scava, va a fondo su ogni dettaglio. La tua abilità sta nel creare qualche cosa di nuovo usando quel poco che hai a disposizione. La creatività non è mai una questione di disponibilità, di libertà di risorse e pensiero. Più la creatività è costretta dal rigore, più la creatività reagisce in splendore. Quando la creatività è costretta dal rigore, si trasforma in abilità. Si dice che Flaubert si contorcesse tutta la notte per scrivere appena tre righe.

Microplastiche e creatività senza fibre sintetiche – è possibile? Troppo difficile?

La notizia è stata amplificata dai rotocalchi nazionali: le microplastiche sono state ritrovate nelle placche aterosclerotiche. Uno studio italiano dell’Università della Campania, in collaborazione con l’Istituto dei Tumori di Milano e la scuola di medicina di Harvard a Boston, ha indicato come raddoppiato il rischio di infarto alla presenza di placche inquinata da microplastica. Le microplastiche sono state rilevate nella placenta e nel latte materno, nel fegato, nei tessuti cardiaci, nello sperma. Le prime tre fonti di inquinamento da microplastiche sono i pneumatici, l’industria cosmetica e il settore tessile. Polietilene e PVC sono usati ovunque. Di fronte a tutto questo, c’è ancora gente che pensa ai vestiti con le paillette. 

Il punto di partenza è da aggiornare: un designer che vuole essere contemporaneo, non parte più dal suo disegno. Il designer che oggi sa cosa sta facendo, comincia ragionando sull’impatto che quel vestito avrà in manifattura – e da questo ragionamento, discutendo con la filiera, comincerà scegliendo fibre naturali, prima di altre opzioni. Volendo davvero continuare a usare il sintetico, non lo mescolerà alle lane né alle pelli. Non mescolerà materiali diversi per consistenza, alzando il rischio di tenuta delle cuciture (sia che queste siano condotte in cotone sia in nylon). 

Inutile lo sbadiglio per noia che ti sto muovendo, così come sono inutili le stampe a colori sgargianti che ti piace raccogliere nei mood-board creativi. Dal 17 ottobre 2023 è in vigore il Regolamento della Commissione Europea noto come Lotta alle Microplastiche che ne limita l’uso: in cosmesi, negli scrub così come mei trucchi; nel tessile, limitando il glitter. Nel 2024, un designer contemporaneo spero sappia smettere di utilizzare glitter.

Lampoon 29, look Fendi, photography Jelka von Langen and Roman Goebel
Lampoon 29, look Fendi, photography Jelka von Langen and Roman Goebel

Chi sono i clienti di Prada oggi?

Parliamo al femminile – esistono ancora le donne di Prada, quelle originali? Le clienti che comprendono l’azzardo, l’ironia della bruttezza, la goffaggine che diventa noncuranza: la camminata a passetti veloce, mezzo tacco, bacino alto, golfino al punto vita – e la gonna sotto il ginocchio, con l’orlo alto una spanna. Esistono ancora le donne che sono questo, oppure ci restano solo ragazze che imitano quel che non possono capire? Ragazze che sminuiscono sia l’uniforme di Prada sia la Milano che questa uniforme rappresenta, sia – di certo – loro stesse. 

Nel contesto di uno show di Prada tutto ha un senso – ma esistono, queste donne, fuori nella realtà? Questa contraddizione adesso sembra poter procedere, o forse resistere – ma continuerà? Per quanto tempo ancora? Il punto rimane l’origine: se si tolgono le fondamenta, l’edificio starà in piedi lo stesso? La signora milanese e borghese alla quale la signora Prada si riferisce, dov’è finita? 

La signora Prada sembra voler ricordare a tutte le altre reattive borghesi e milanesi, che di ogni disgrazia si può ridere – e discuterne con un ragazzo arrivato dal Belgio. L’ironia ruvida. Cini Boeri le avrebbe potuto rispondere a tono – così come Giulia Maria Crespi, Gae Aulenti o la Contessa di Monza – mantenendo l’acume del dialogo che Lina Sotis usava per un suo trafiletto. Oggi tra le fila, appropinquandosi per trovare il posto numerato, si notano annoiate quelle carine che si chiamano tutte Chiara, sempre troppo truccate e sempre con troppe paillette addosso – insieme alla giornalista che il trafiletto della Sotis, per quanto ci voglia provare, non riuscirà mai a scriverlo.

Moda, devi averne l’ossessione

L’industria della moda è genericamente ossessionata da Prada. Vero che esiste un’ossessione ancora più drammatica, di questa per Prada, che l’industria subisce – l’ossessione per Hedi Slimane. Rispetto a Prada, Hedi Slimane è inavvicinabile, distaccato e indifferente – l’ossessione rimane in silenzio, intima, riservata. L’industria della moda – non la moda di per sé – è una comunità di persone ossessionate. Quelli che hanno successo, in questa industria, sono quelli ossessionati. 

Per industria della moda non si intende solo la comunità di quelli che producono e vendono vestiti – ma si intende un sistema che produce grafica, fotografia, che sovvenzione arte e istituzioni culturali, che catalizza i tentativi di studenti in ogni parte del mondo. La domanda è a monte – l’industria della moda è intellettualmente abile a tale ossessione? 

Lampoon 20, Gucci shoes, creative Annie Collinge
Lampoon 20, Gucci shoes, creative Annie Collinge

Moda e nessuno interesse per la sostenibilità?

Si può dare per assodato: alla moda non interessa la sostenibilità. Proviamo ad andare oltre. Cerchiamo la creatività – sì, con poliuretani, elastici e plastiche – ma cerchiamo una creatività forte, un disegno d’azzardo, un’idea inedita. Qualcosa che stia influenzando tutto il resto così come la moda è chiamata a fare. Non è rassegnazione, ma reazione: è virtù della creatività trovare soluzioni che non sappiamo immaginare, che non sappiamo aspettare. 

La creatività si trova da Duran Lantink. Se ne è parlato tanto. I vestiti si staccano dal corpo, inventando volumi, trovando ironia e sprezzatura, raccontando un approccio scultoreo. L’asserzione è la più legittima per la moda: non esiste una bellezza data. I canoni estetici non devono – non avrebbero mai dovuto – essere standardizzati. Bruttezza e bellezza non sono concetti che la moda oggi può veicolare – e questo, le generazioni precedenti e i manager aziendali, devono accettarlo. 

Si può disquisire nel rapporto tra diversità e unicità: sei diverso dagli altri, o stai bene nella tua unicità?

Diverso e unico sono sinonimi? Ragazze con pettorali maschili e mammelle che ballano su gambe da uomo. Jeans immettibili, ma quanto pittorici. Il valore editoriale è già parte del prodotto – non serve fotografo, non serve il contesto autoriale di un giornale. Con un vestito così addosso, qualsiasi foto, anche quella scattata da tuo figlio di quattro anni, diventa virale. 

Si riduce tutto a questo? Quanto meno se ne parla. Una presentazione con poca finanza – la domanda su come ci siano i fondi, per un progetto simile. Quanto si possa vendere – sia ai buyer, sia ai clienti finali. Una sfilata in ufficio, dettagli ruvidi. Libero, indipendente – almeno per adesso. Le pubbliche relazioni dietro a un brand sono sufficienti a far crescere in imprenditoria il brand oppure si tratta solo di creare una brand awareness sufficiente affinché arrivi in un gruppo finanziario a comprare il pacchetto e a dare uno stipendio al direttore creativo. 

Il dubbio se il lavoro di pubbliche relazioni dietro Duran Lantink sia ben progettato – o se sia soltanto l’ennesima frigidità dell’industria della moda, autocompiaciuta e sterile. Esiste ancora l’imprenditorialità della moda o la moda è solo un gioco a chi trova prima un investitore che si faccia carico del problema?

Langston Uibel wears hamp hooded sweater Prototipo Studio
Langston Uibel wears hamp hooded sweater Prototipo Studio

Iper consumismo – da Anna Wintour a Donald Trump

Tanto di tutto il resto, di quello che si vede a Parigi, è sviluppo di un brand commerciale – ovvero il regno di Anna Wintour. Una donna che un tempo produceva la sensazione di potere, e che oggi è l’icona del consumismo americano. Professionalmente, Anna Wintour è la sintesi simbolica di ogni ragione a cui è dovuta la crisi che la moda sta attraversando. 

Il problema reputazione che la moda sta soffrendo: un sistema che gira intorno a una gara di atteggiamento e frivola coolness; un sistema per il quale le pubbliche relazioni hanno priorità rispetto alla sostanza; un sistema che persiste nel valutare ogni evenienza con il numero di follower su Meta. Un sistema che è la legittima espressione di un’epoca governata da Trump e, appunto, da Anna Wintour. Sempre di più, Trump e Wintour appaiono simili. Diversi nei loro campi – uno parla di guerra e petrolio e canticchia Drill Baby Drill; l’altra parla di plastica e colori e parties; l’atteggiamento è simile, così come è simile la loro età.

Lampoon 28, Look Hermès, photography Maxime Ballesteros
Lampoon 28, Look Hermès, photography Maxime Ballesteros

Le tre case di Parigi: Hermès, Louis Vuitton, Chanel 

La moda sta attraversando un momento di crisi forse più drammatico di altri recenti. Se da una parte, il desiderio della clientela si sta spostando sulle esperienze piuttosto che sul possesso – viaggi e benessere, piuttosto che vestiti e accessori – dall’altra parte, la reputazione del settore del lusso crolla sotto l’accusa di complicità a un consumismo che tutte le generazioni individuano come il peggiore dei mali. Tutto questo succede nonostante sia chiaro e ovvio – per analisti e studiosi di economia – quasi sia la soluzione: sostenibilità. Sì, quella sostenibilità che in troppi continuano, più o meno dichiaratamente, a liquidare con il pretesto della noia. 

A reazione di crisi e di ignavia, le tre grandi case francesi continuano procedere un’economia in crescita. 

Tre poteri. Hermès, Louis Vuitton, Chanel.

Tre poteri. Hermès, Louis Vuitton, Chanel. Colossi economici: qualcuno ne vede un limite: un’incombenza commerciale che toglie ossigeno alla creatività. Qualcun altro prova nostalgia, tornando ai tempi quando si trattava di belle donne, bei vestiti. Qualcun altro trova nei livelli di complicazione, una nuova ragione per continuare a ragionare su quanto, ogni stagione, le tre grandi case presentano al pubblico e al mercato.

I primi per fatturato, i primi per forza commerciale, i primi per mecenatismo. Primi, per operazioni di branding. No, non si tratta di moda – si tratta di Parigi, di Francia – le tre case sono emblemi francesi, forse monumenti. L’Europa vende la manifattura e il lusso, l’America i servizi digitali. Qualsiasi cosa facciamo: vedere la televisione, fare la spesa, prendere un taxi, quando altro – lo facciamo oggi tramite una applicazione americana.  Non soltanto: i fondi finanziari europei comprano azioni alla borsa americana: l’Europa è il primo finanziatore estero dell’America. In cambio: l’Europa esporta e genera, manifattura, lusso, sogno, qualità di vita – si può usare la parola cultura? Europa è cultura, ma noi non lo sappiamo. Hermès, Louis Vuitton e Chanel: i primi tra marchi francesi per fatturato a miliardi di euro. Proprietà francesi.

Hermès, la terra e i dati finanziarie 

Hermès trova la sua identità nel colore della terra scuro. Un marrone notturno che si mescola al nero. Terra fertile, bagnata, lavorata, umida. Muri circolari di fango si alzano su piani inclinati. Il nero marrone trova luce e riflesso, è cuoio. Un richiamo dell’elemento equestre, del nodo, della stringa. Non c’è niente di più complicato della semplicità – Hermès trova una suo codice per la moda – se la moda è moda, e non stile. 

La produzione di Hermès è dislocata in Francia: sono 23 manifatture artigianali sul territorio nazionale. Portare tutto in un unico polo produttivo, avrebbe ragione di efficienza e razionalità industriale – ma l’impegno a coltivare i distretti provinciali e le tradizioni regionali è prova di una solidità della strategia a lungo termine della casa. 

A febbraio 2025, sono stati comunicati i dati finanziari di Hermès per il 2024: un fatturato complessivo di oltre 15 miliardi, con una crescita del 15% rispetto all’esercizio precedente; un utile netto a 4.6 miliardi di euro. Tutti i mercati in positivo. Una forza lavoro di oltre 25.000 impiegati, di cui 2,300 assunti nel 2024. È stato confermato un bonus di 4.500 euro all’inizio del 2025 per tutti i dipendenti. Da notare, la strategia di riduzione dei punti vendita, piuttosto che una crescita: i negozi sono scesi sotto i 300 indirizzi nel mondo. 

styling Mine Uludag, all Chanel. Photography Frederik Ruegger
styling Mine Uludag, all Chanel. Photography Frederik Ruegger

Il ritorno di Milano, la città con due orbite

Si raccoglie nell’aria: una disillusione verso tutto il sistema moda, un sistema che oggi è diventato un’espressione finanziaria e non più creativa, senza codifica di sofisticazione alcuna, non più motore di ambizione, non più espressione di mecenatismo in pubblicità – ma puro fattore numerico, algoritmico. Gucci risorgerà – la casa vive nell’immaginario commerciale – ma è il sistema moda nel suo intero a vivere un momento di debolezza reputazionale, di imbruttimento percepito.

A Milano ci sono due orbite che non si toccano: due orbite in cui si esprimono atteggiamenti opposti: due orbite su cui gravitano tipologie diverse di persone. 

La prima orbita è quella di cui ho qui dato come casuale epitome Dsquared2. In questa orbita girano quelli che vogliono urlare, far vedere quanti soldi hanno da spendere, quanto bravo è il loro chirurgo plastico. Quelli che usano, usano, usano quanto devono senza preoccupazione. Che problema mai ci deve essere, se vendo e guadagno? Quelli che ancora pensano le gente si debba vestire per andare in discoteca. Dolce & Gabbana, Cavalli – addirittura Versace, che peccato vederne un tale disarmo. Si tratta di vestiti fatti con le fibre ad estrusione chimica, stampe psichedeliche, roba scintillante ovunque si possa, tutto pur di far vedere come le tette stanno su e come le natiche ballano a ritmo. Questo è il mondo del Grande Fratello, di Alfonso Signorini, di Barbara D’Urso, di Fabrizio Corona, di Fedez. Questa orbita, questa gente, umilia la cultura italiana e la cultura di Milano.

L’altra orbita è quella che compone l’identità di Milano

Armani e Prada, in sintesi di moda. Una città che lavora, una città il cui snobismo è solo un’espressione di understatement. Il cui gusto si evolve sui disegni di Gardella, di Magistretti, dello Studio BBPR – la cui sapienza e speculazione intellettuale entrano sul funzionamento delle strutture – architettoniche, letterarie, intellettuali. Una città dove la moda è stata inventata come ready to wear. Un atteggiamento così radicato in questa terra che nella mostra Il Genio di Milano si fa risalire finanche a Federico Borromeo. Chi appartiene a questa orbita, rimane in silenzio mentre dall’altra parte urlano, gridano nei gironi infernali. 

full look Prada. Photography Boris Ovini, styling Niki Pauls
Lampoon 31, full look Prada, photography Boris Ovini

Scrivere di moda: articoli, giornalisti. Accezione tecnica e accezione poetica

Scrivere di moda: scrivere abusando di aggettivi e pareri personali di stile; descrivere un poco di sartoria con qualche termine tecnico così da mostrarsi preparati; trascrivere cenni storici e riscrivere una battuta con la quale mascherare un gossip come notizia. Così sono gli articoli che appaiono sui quotidiani o blog, italiani e internazionali, firmati da giornalisti che si agitano e si eccitano quando salutano un personaggio famoso. Quando devono dare supporto a chi chiamano amico, crogiolandosi perché si sentono parte di un’élite.

Qui su Lampoon gli aggettivi sono vietati. Scrivere di moda, continuo a provarci. Scrivere stritolando, scorticando il cervello, cercando livelli di lettura che possano scuotere la curiosità di quelli che ridono: della moda non me ne frega niente. La moda, intesa nella sua accezione tecnica, è la codificazione di prodotti che aumentano le vendite nei mercati. Non solo vestiti – se per moda si intende la creazione di immagini commerciali che colpiscono la collettività evolvendosi in cultura popolare. La moda genera immagini per l’economia di massa. La moda, intesa invece nella sua accezione poetica, è la narrazione del tempo che scorre.

Carlo Mazzoni