
Nella carne: David Szalay, ancora un’altra sfida alla mascolinità tossica
David Szalay firma Nella carne, Booker Prize 2025: un viaggio di 40 anni in cui István attraversa Iraq, lockdown e miseria rispondendo sempre e solo «Okay»
David Szalay e Nella carne: il libro vincitore del Booker Prize 2025 che ridefinisce il racconto dell’uomo moderno
Quando gli viene chiesto di cosa parla il suo ultimo libro, Nella Carne, David Szalay dice che voleva raccontare cosa significa essere un corpo vivo nel mondo, che voleva scrivere un libro che iniziasse in Ungheria e finisse in Inghilterra e che parlasse di un migrante ungherese nel tempo in cui l’Ungheria è entrata a far parte dell’Unione Europea, un libro sull’Europa contemporanea, e sulle differenze culturali ed economiche che la caratterizzano.
«È un libro rischioso, mi è sembrato rischioso scriverlo» ha detto alla cerimonia di premiazione del Booker Prize. Un rischio da prendersi comunque, perché «una delle cose più importanti che la narrativa può fare è proprio assumersi rischi estetici, formali, forse persino morali».
Szalay (dicasi “Soloy”) ha cinquantuno anni, è nato a Montréal da madre canadese e padre ungherese, è cresciuto tra Beirut e Londra, e ora vive a Vienna. Scrive solo in inglese, l’unica lingua che dice di parlare abbastanza bene. Scrive a computer, dalle sei di mattina, seduto alla scrivania con una tazza di caffè caldo a fianco. Sa di aver fatto un buon lavoro quando si rende conto di non aver finito il caffè e ciò che ne resta è freddo da ore. Lo infastidiscono le persone che chiacchierano in treno quando cerca di leggere. Pensa che tutta la narrativa sia in qualche modo una fan fiction, perché animata dal desiderio di imitare e ricreare l’effetto che i libri di altre persone hanno avuto su chi scrive. Rilegge raramente i libri che ha amato, anche se ammette di aver ripreso in mano, negli ultimi anni, le storie che lo avevano affascinato in adolescenza: Lo straniero di Camus, L’idiota di Dostoevskij e Cuore di tenebra di Conrad.
Ha scritto sei libri, tra romanzi e raccolte di racconti. I primi due, London and the South-East e Innocent, sono inediti in Italia, mentre Primavera è stato pubblicato nel 2021 da Liberilibri, e i più famosi Tutto quello che è un uomo (già finalista al Booker Prize nel 2016) e Turbolenza sono editi Adelphi, che ha pubblicato anche Nella carne.
Erede di una tradizione narrativa tutta europea, Szalay ha saputo riscrivere il racconto di formazione classico, con particolare attenzione alla figura del maschio nella società contemporanea, attraversando forme e generi sempre diversi, dal romanzo composito, più brillante e divertito, alla decomposizione della storia in racconti brevi, in apparenza scollegati l’uno dall’altro. Nella carne è l’ultimo tassello di un’opera in divenire che prova a raccontare l’uomo moderno.
István, l’antieroe di Nella carne: la fragilità maschile raccontata attraverso silenzi e incomprensioni
Ci sono romanzi che a raccontarli basta una battuta – si pensi al «Later» ripetuto da Oliver in Chiamami col tuo nome di André Aciman. Nella carne è uno di questi e sta tutto in un «Okay», pronunciato più di centottanta volte, quasi sempre da István, protagonista del libro, in un ripetersi di dialoghi asciutti, quasi monotoni, aderenti al chiacchierare quotidiano, con i suoi anacoluti e i suoi troncamenti. Dialoghi che non si risolvono mai, spezzati dai silenzi e dalle incomprensioni. Un esempio: “Lui apre la bocca per parlare, ma lei: «No, non dire niente». In realtà non sapeva cosa stava per dire. «Non dire niente» ripete lei. «Okay» fa lui. «Adesso devo andare». «Domani ti rivedo?» le chiede. «Perché non dovresti?». «Okay».”
Non sappiamo niente di István, né il suo cognome, né il colore degli occhi o dei capelli, la forma delle sue labbra o del suo viso, non sappiamo se è alto o basso, forse è bello, ma di certo lui non lo sa, non sappiamo com’è nato, dov’è nato, che bambino è stato, dov’è suo padre, se mai l’ha avuto. Lo conosciamo quindicenne, appena arrivato con la madre in una nuova città. Deve ricominciare in una nuova scuola e a quell’età mica è semplice, l’ordine sociale è consolidato e István ha difficoltà nel farsi amici. Questo si dice di lui nelle prime cinque righe del libro, e questo all’incirca resterà fino alla fine del romanzo: figura a latere di una storia che ora lo grazia, ora lo sommerge, ragazzo prima e uomo poi alla ricerca del suo posto nel mondo, senza speranza e senza disperazione. Ricorda Barry Lyndon, simile l’ascesa, simile la caduta, ma è meno arrivista. Ha la stessa ferma postura del Meursault de Lo straniero di Camus, del Giobbe di Joseph Roth e dello Stoner di Williams.
In apparenza, la sua pare una vita come tante. Cè di più, perché Szalay attinge alla grande tradizione del romanzo di formazione europeo e trascina István in una lunga serie di sfortunati eventi in cui riecheggiano le più note disavventure dickensiane. Adolescente solitario, il ragazzo si innamora della sua vicina di casa quarantenne, lei lo respinge, le cose si complicano e finiscono in tragedia, la prima di molte che verranno: l’arruolamento in Iraq, lo stress post traumatico, i lavoracci, gli amori fallati, le droghe, l’alcool, la miseria. La tensione cresce fino a esplodere in piccoli e grandi colpi di scena, e poi il vuoto, un salto temporale che ci sposta sempre poco più in là. Quasi a dirci che non importa ciò che è stato, passiamoci sopra, la vita continua.
Silenzi, vuoti e cadute: il realismo asciutto con cui Szalay ritrae la vulnerabilità maschile
Szalay costruisce Nella carne tutt’attorno a buchi narrativi, non ci dice mai cos’è capitato a István nell’istituto minorile dove ha trascorso l’adolescenza, poco racconta della sua esperienza in Iraq, e non sappiamo come finisca a Londra, a lavorare come bodyguard in locali notturni. Lo vediamo conoscere la violenza, il sesso, la droga, la guerra, la fortuna, il dolore, la morte, crescere, inciampare, rialzarsi, innamorarsi, sbagliare, perdere tutto, e rispondere a chiunque gli chieda come stia: «Okay».
Elusivo nella forma, elusivo nel contenuto, Szalay spoglia il racconto d’ogni orpello, mai un aggettivo di troppo, una subordinata scivolosa, un dialogo diluito, facendo sì che la storia rispecchi chi l’abita. Come István, Nella carne sa essere quasi respingente nella sua affettazione che nasconde tutto l’imbarazzo, l’amore, la noia, il dolore.
C’è una scena che ben descrive l’atteggiamento che István assume davanti ai drammi e le fortune della vita. Accade proprio nelle prime pagine, quando il ragazzo perde la verginità e la donna con cui la perde gli dice che adesso è un uomo e gli chiede cosa prova. Szalay lo racconta così:
“István pensa che stranamente non si sente diverso, gli sembra che non sia cambiato niente. Però non lo dice. Accenna una specie di scrollatina di spalle, sempre standosene sdraiato, poi lei si alza e comincia a rivestirsi. «Tutto bene?» gli chiede, perché non dice niente da un po’. «Sì» fa lui. «Okay».”
Una scrollatina di spalle per levarsi di dosso l’amore e il dolore, per dimenticare il fastidio, per non pensarci più su. Seguiamo István più o meno dagli anni Settanta a oggi – non ci sono precise coordinate temporali ma accenni sparsi e chiari riferimenti al Covid e il lockdown – e per tutto il tempo sembra non sapere cosa va cercando, in attesa che qualcuno o qualcosa lo trovi, o forse nemmeno, perché non ci pensa mai davvero al futuro, non sa perché fa quel fa, preda di stimoli fisici e involontari che ne segneranno le costanti ricadute. Non sa come e cosa rispondere a chi lo vuole, a chi lo cerca, a chi lo ama e a chi lo rimprovera, gli sembra che una risposta non esista. Finge di non capire, continua a non dire niente. È spesso imbarazzato, non sa come si sente. Quando gli viene chieste a cosa stia pensando, risponde: “Niente”. Ha come la sensazione che gli altri non capirebbero, “qualcosa di così importante che lo sforzo di parlarne si rivelerebbe futile, se non peggio”.
Mascolinità in crisi: István come manifesto dell’uomo moderno tra istinto, solitudine e incapacità di comunicare
C’è un certo tipo di uomo che incarna un certo tipo di mascolinità che si dice essere in crisi eppure continua a resistere. C’è l’animale che ogni maschio si porta dentro, feroce e istintivo, raccontato da Francesco Piccolo e prima ancora cantato da Franco Battiato.
L’animale maschio si può ammansire, addomesticare, educare, ma non sopprimere. La mascolinità invece è una maschera, ce la si può levare, o dimenticare, gettare, bruciare. La si può cambiare a seconda dell’occasione, della compagnia, dell’umore.
Molto è stato detto su cosa significhi essere maschi al giorno d’oggi, si è discusso sui limiti, i difetti, gli sbagli commessi, molto resta da dire ed è un terreno scivoloso, forse per questo Szalay ha detto che Nella carne gli è sembrato un romanzo rischioso da scrivere. Perché con la sua forza lenta ci trascina davanti a quell’essere maschio incapace di levarsi la maschera, che forse pure un po’ ci prova ad addolcire l’animale che si porta dentro ma quello scalpita e quando scappa distrugge ogni cosa. Un maschio silente ma violento, educato e diffidente, rabbioso, incomprensibile. Imbarazzato di fronte al dolore, goffo nell’amore.
Certo István incarna l’eroe tragico per antonomasia, colui che messo davanti alle atrocità della vita tenace prosegue il suo percorso, ma è anche manifesto di una mascolinità primitiva (“Tipo che incarni una forma di mascolinità primitiva. Ha detto che lo stupisce che io ne sia anche solo lontanamente attratta», gli dice a un certo punto Helen, donna della vita, riportando le parole del figlio Thomas). István è impacciato nell’affetto, rigido rispetto ai sentimenti, le parole gli sembrano troppo dolorose o umilianti per pronunciarle ad alta voce, allora attacca, e dopo aver attaccato non riesce a credere di averlo fatto davvero.
Nella carne è una storia di padri assenti, di uomini soli, di maschi che non si parlano, che non si guardano negli occhi, che non si ascoltano e che se si ascoltassero si scoprirebbero simili – lo stesso distacco di István si riscontra in forma nuova, più consapevole, nel figlio adottivo Thomas e in quello di sangue Jacob che come István spesso, davanti a un problema, dicono: “Okay”. Non si capiscono, perché i maschi faticano a riconoscersi, e pensano e ripensano, e si sentono sopraffatti dalla tristezza. Quando qualcuno chiede loro a che pensano, rispondono: niente.
Nicolò Bellon



