Prima della Scala 2025: Lady Macbeth, alberi sponsorizzati e libertà sorvegliate

Biglietti da migliaia di euro, la città celebra un’opera nata sotto la censura sovietica e si racconta come capitale “sostenibile”. Chi paga il rito del 7 dicembre e chi ne resta fuori?

Un’opera nata sotto la censura nella sala più sorvegliata d’Italia

Alla Scala, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk viene proposta nella versione originale del 1934. È la partitura che aveva scandalizzato i funzionari sovietici per la scrittura aspra, per le scene erotiche, per l’assenza di redenzione. Recuperarla integralmente significa riportare in scena il momento esatto dello scontro tra Šostakovič e il potere politico.

Katerina vive in una casa-azienda: il suocero la sorveglia, il marito è assente, gli operai hanno più peso di lei nel bilancio familiare. L’amante Sergej rappresenta l’unico varco possibile e trascina con sé una serie di omicidi. Il percorso si chiude in una colonia penale, nella neve, con un suicidio che porta con sé anche la giovane rivale. È un mondo in cui il potere economico, quello domestico e quello di polizia formano un unico blocco.

Mettere questa storia al centro della Prima significa farla passare attraverso un’altra forma di controllo. La sera del 7 dicembre il quadrilatero attorno alla piazza cambia funzionamento: barriere, varchi, metal detector, cordoni di forze dell’ordine. La protezione delle alte cariche e degli ospiti internazionali diventa parte della scenografia. Mentre sul palco si racconta una donna che paga con la vita il rifiuto di un ordine imposto, intorno al teatro si disegna una geografia di accessi e divieti che seleziona chi può avvicinarsi e chi no.

La Prima alla Scala: un pubblico selezionato per un teatro pubblico

In platea e nei palchi siede un pubblico composto in larga parte da invitati; spesso sempre più goffi, annoiati e lontani da un interesse per la lirica. Alla fine in tanti liquideranno il tutto con un bellissimo. La Prima è una serata di rappresentanza: a decidere chi entra non è soltanto la capacità di acquistare un biglietto, ma una rete di relazioni istituzionali, economiche, culturali. Un posto non vale solo per la vista sul palcoscenico, ma per le strette di mano che permette.

Anche la lirica, nel frattempo, è cambiata. Il teatro che ha consegnato alla storia la voce di Maria Callas – una voce che obbligava il pubblico all’ascolto prima ancora che allo sguardo – oggi ospita spesso un pubblico meno disposto a lasciarsi mettere in discussione da un’opera che a farsi registrare dalla scena collaterale: le telecamere, i tappeti, i social. La sala diventa fondale per una città che si auto-rappresenta; il brusio delle relazioni mondane rischia di coprire il silenzio necessario alla musica. Non è nostalgia per un’età dell’oro, ma la constatazione di uno slittamento: il luogo in cui una volta si misurava l’attenzione del pubblico sulla fragilità di una voce ora misura soprattutto la sua capacità di occupare lo spazio visivo della serata.

Ogni presenza comunica qualcosa. La partecipazione del capo dello Stato, di un presidente del Consiglio, di una delegazione europea, dice quale ruolo Milano rivendica nella geografia politica. La composizione degli invitati delle fondazioni, delle banche, della moda, racconta quali mondi si riconoscono nella Scala come luogo identitario. L’opera di Šostakovič diventa così una lente: mentre in sala si parla di potere e censura, lo stesso potere si distribuisce tra palco reale, platea e foyer.

Biglietti, fondi pubblici, inviti: la grammatica del privilegio a La Scala

La domanda su chi paghi la Prima non si ferma davanti alla cassa. Negli ultimi anni i prezzi ufficiali dei biglietti per il 7 dicembre hanno toccato cifre vicine ai tremila euro per i posti migliori, con una gradazione che scende verso alcune decine di euro solo per una minoranza di sedute lontane. Non tutti questi posti arrivano in vendita: una parte consistente viene assegnata tramite inviti, protocolli, rapporti con lo sponsor.

Se si guarda ai conti, il quadro si rovescia. Le fondazioni lirico-sinfoniche italiane dipendono in modo strutturale dal sostegno pubblico. Una relazione della Corte dei Conti ha mostrato che la maggior parte dei contributi in conto esercizio degli enti lirici viene ancora dal bilancio dello Stato, con ulteriori quote garantite da Regioni, Comuni, Città metropolitane. La biglietteria, i turni di abbonamento, le tournée e i sostegni privati completano il montaggio, ma non potrebbero mantenere da soli la macchina.

Nel caso della Scala, l’intreccio tra fondi pubblici, fondazioni bancarie, mecenati e grandi imprese consente di tenere in piedi un teatro che, nel corso della stagione, registra tassi di riempimento elevati. La Prima pesa più come simbolo che come fonte di entrata. È l’immagine che la città restituisce di sé: un luogo in cui, nonostante debiti, ignoranza e crisi, l’Opera continua a esistere.

Maria Callas a La Scala
Maria Callas a La Scala

Chi finanzia davvero il rito del 7 dicembre?

Se il funzionamento del teatro si regge in gran parte su risorse collettive, la selettività del 7 dicembre diventa un tema politico. La domanda non è solo quanto costi il biglietto, ma chi partecipa, con quali canali e a quale titolo.

Negli ultimi anni la risposta ufficiale è stata quella di affiancare al rito chiuso una serie di dispositivi di apertura. Il più visibile è Prima diffusa, che sposta l’opera inaugurale fuori dalla sala. Accanto a questo, il teatro ha lavorato su anteprime per gli under 30, su riduzioni mirate, su progetti con le scuole. Restano però due piani distinti: da una parte la serata di rappresentanza, dall’altra le forme di partecipazione “allargata”.

Prima diffusa: la città come sala di seconda fila

Prima diffusa nasce per allargare il raggio della Prima. Nei giorni che precedono il 7 dicembre, le guide all’ascolto entrano nei teatri di quartiere, nelle biblioteche rionali, nelle case di comunità. La sera della Prima, l’opera viene trasmessa in diretta in decine di luoghi, spesso con ingresso gratuito.

Si può seguire Lady Macbeth seduti su sedie di plastica in una palestra, al freddo di un cortile di periferia, in un cinema. In molti casi la proiezione diventa occasione conviviale: un piatto di riso, una bevanda calda, la presenza di chi abita il quartiere e non ha mai varcato la soglia del teatro. 

Una grande società energetica sostiene la rassegna e ne assorbe la capacità di racconto. Nei materiali ufficiali compaiono parole come «palcoscenico diffuso», «città che si accende», «energia condivisa». Si insiste sui consumi contenuti delle apparecchiature, sul riutilizzo dei supporti, sull’attenzione agli sprechi.

Prima diffusa: accesso, immagine e distanza

La domanda, qui, è meno tecnica che politica. Prima diffusa sposta davvero il baricentro del rito, oppure ne rende soltanto più accettabile la forma chiusa? Chi guarda l’opera su uno schermo partecipa alla stessa esperienza di chi la segue in sala, oppure vive un’altra cosa, costruita apposta per lui?

La città, in queste sere, diventa un mosaico di schermi che rimandano a un unico palcoscenico. In alto c’è la sala con i suoi ospiti; sotto, nei quartieri, si estende una costellazione di platee secondarie. Il rapporto tra centro e periferia, tra chi siede nelle poltrone di velluto rosso e chi sulle sedie pieghevoli, è il punto in cui la parola «sostenibilità» smette di indicare soltanto sprechi energetici e inizia a riguardare l’equità dell’accesso.

Natale degli alberi: quando la festa la scrivono i marchi

Negli stessi giorni, il centro di Milano si riempie di un’altra scenografia: il Natale degli alberi. Il progetto, nato come idea curatoriale e trasformato in formula urbana, prevede che grandi marchi finanzino alberi e installazioni luminose in alcune piazze della città.

Piazza Duomo, piazza Scala, la Galleria, Cordusio, Gae Aulenti, CityLife: i luoghi più fotografati si trasformano in punti di una mappa luminosa. Ogni albero ha una firma, un racconto grafico, una storia da comunicare. Può richiamare i giochi olimpici, una linea di profumi, una campagna sul risparmio energetico. Il Comune concede gli spazi e coordina i permessi; le aziende coprono i costi e si prendono l’attenzione.

Le cifre degli ultimi anni indicano investimenti privati significativi, che permettono all’amministrazione di non sostenere direttamente gran parte delle spese per addobbi e installazioni. In cambio, lo spazio pubblico diventa un catalogo di loghi e colori. L’albero di piazza Duomo si misura in altezza e numero di fotografie, quello della Galleria in quantità di dorature, quello davanti alla Scala nella sua capacità di dialogare con il teatro sullo sfondo.

Milano: Natale «sostenibile» o vetrina permanente?

Anche qui la parola «sostenibilità» ritorna. Le decorazioni sono quasi tutte a led, gli orari di accensione sono regolati per ridurre i consumi, alcuni allestimenti sono spostati in altre sedi dopo le feste. Nei comunicati si parla di materiali riciclati, di filiere controllate, di attenzione all’impatto ambientale.

Resta l’effetto complessivo: per settimane, il centro di Milano si trasforma in un ambiente immersivo in cui la festa coincide con una sequenza di ambienti firmati. La stessa piazza che ospita la facciata della Scala diventa sfondo per un albero sponsorizzato, per un villaggio temporaneo, per un flusso ininterrotto di fotografie condivise.

Se la Prima è il rito in cui la cultura «alta» incontra i poteri pubblici e privati, il Natale degli alberi è il momento in cui la stessa logica entra nello spazio quotidiano. Il tema non è solo chi paga le luci, ma chi decide come devono apparire le piazze in cui viviamo.

Vernice lavabile, giudizi penali e conflitto sul clima

Nel dicembre 2022 un’azione di protesta ha inciso questa scena. Alcuni attivisti di Ultima Generazione hanno lanciato vernice colorata sulle vetrine che ospitano le locandine della Scala, poche ore prima della Prima di Boris Godunov. La vernice era lavabile; l’intervento di Amsa ha riportato in breve tempo le teche allo stato precedente; gli attivisti sono stati fermati e denunciati.

L’immagine del teatro macchiato ha circolato a lungo. Per alcuni è stata la prova di un attacco al patrimonio; per altri un gesto che puntava il dito contro una città capace di spendere molto in illuminazione e poco in cambiamento di modello. Il seguito è finito nelle aule di giustizia: richieste di risarcimento, imputazioni per danneggiamento, discussioni sul confine tra protesta e reato.

Quell’episodio ha mostrato la Scala come luogo di conflitto. Per chi protesta, colpire il teatro nel giorno della Prima significa portare il tema del clima nel centro simbolico del potere culturale. Per le istituzioni, proteggere la facciata e le vetrine equivale a difendere una parte dell’identità milanese.

Il ritorno di Lady Macbeth e le libertà in gioco

Quando, nel 2025, Milano propone Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk come «inno alla libertà di espressione», questo passato recente è ancora presente. La libertà che l’opera mette in scena riguarda il rapporto tra artista e censore, tra individuo e apparato politico. La libertà che gli attivisti rivendicano riguarda il modo in cui la città usa l’energia, lo spazio pubblico, il denaro.

Tra queste due forme di libertà c’è un teatro che prova a tenere insieme tradizione e attualità. Da un lato, la tutela di un luogo e di un repertorio; dall’altro, le richieste di chi chiede di rivedere le priorità, anche a costo di disturbare la fotografia della serata. La distanza tra palco e strada resta visibile, soprattutto nel momento in cui la città celebra se stessa.

Libertà di espressione, libertà di accesso, libertà di movimento

Nel raggio di poche centinaia di metri, il 7 dicembre, si incontrano molte libertà diverse. C’è la libertà artistica del teatro che mette in scena un’opera un tempo censurata. C’è la libertà economica dei marchi che occupano le piazze con alberi e installazioni. C’è la libertà di dissenso che, nella pratica, deve fare i conti con transenne, ordinanze, zone di sicurezza.

Chi osserva dall’esterno potrebbe vedere soltanto una città in festa. Chi guarda con più attenzione nota la distribuzione dei corpi: chi è seduto in platea, chi resta davanti alle barriere, chi vive i quartieri lontani dal centro, chi attraversa il perimetro soltanto per una fotografia sotto l’albero, chi non entra mai in nessuna di queste immagini.

Se la parola «sostenibilità» vuole avere un senso, deve includere anche questo. Non basta ridurre i consumi delle luci o riutilizzare gli allestimenti. Sostenibile è una città che permette l’accesso alla cultura, che non limita il diritto di muoversi e di esprimersi, che usa le risorse pubbliche in modo trasparente. Il 7 dicembre, mentre negli atri scorrono abiti lunghi e nei quartieri la voce di Šostakovič arriva da uno schermo, ci si domanda: quanta libertà siamo disposti a concedere, e a chi, quando la cultura diventa la scena su cui tutto questo si svolge?

Sant’Ambrogio, il «sette» e la città messa in scena

A Milano il 7 dicembre si chiama semplicemente «il sette». Dentro quella data si concentrano il patrono, il ponte lungo, gli Oh bej! Oh bej! attorno alla basilica, gli Ambrogini d’oro (le benemerenze civiche del Comune di Milano) al Dal Verme, l’accensione di alberi e luminarie in centro. Milano si mette in vetrina e decide come vuole essere vista.

Non è sempre stato così. Per quasi due secoli la stagione d’opera si apriva il 26 dicembre, Santo Stefano, dentro il calendario delle feste invernali. Nel Novecento, in pieno clima di guerra, il 7 dicembre entra per la prima volta in scena come data d’esordio; la scelta viene consacrata nel 1951, quando il direttore musicale Victor De Sabata fissa Sant’Ambrogio come inizio ufficiale della stagione con I vespri siciliani di Verdi e Maria Callas in apertura. Da allora il calendario civile e quello lirico coincidono: la festa del patrono non è solo un giorno rosso sul calendario, ma la cornice obbligata in cui Milano decide ogni anno che immagine dare di sé.

Oggi, nel tardo pomeriggio, a poche centinaia di metri dal Dal Verme, un altro pubblico inizia a radunarsi in piazza della Scala. Le auto si fermano davanti al teatro, i tappeti vengono controllati, le telecamere prendono posizione. La Prima non è soltanto l’inaugurazione di una stagione d’opera: è il rito che riunisce politica nazionale, istituzioni locali, finanza, fondazioni, stampa, un certo ceto urbano che qui riconosce se stesso.

Federico Jonathan Cusin

Fotografi a La Scala
Fotografi a La Scala
Maria Callas e Gianni Raimondi durante la prima de I vespri siciliani alla Scala
Maria Callas e Gianni Raimondi durante la prima de I vespri siciliani alla Scala
Natale a Milano, anni Settanta
Natale a Milano, anni Settanta
Maria Callas alla Scala interpreta Macbeth di Giuseppe Verdi, 1956
Maria Callas alla Scala interpreta Macbeth di Giuseppe Verdi, 1956
Natale a Milano, visita al Presepe, anni Settanta
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Teatro alla Scala, fotografia d_epcoa dal palco
Teatro alla Scala, fotografia d_epcoa dal palco
Richard Burton, Liz Taylor, Carla Fracci alla prima di _Un Ballo in maschera_ del 7 dicembre 1972 (foto di Erio Piccagliani)
Richard Burton, Liz Taylor, Carla Fracci alla prima di Un Ballo in maschera del 7 dicembre 1972 (foto di Erio Piccagliani)
Natale a Milano, anni Settanta. Duomo
Natale a Milano, anni Settanta. Duomo
Sua Maestà la Regina Elisabetta II d_Inghilterra riceve fiori dalle giovani ballerine de La Scala in occasione della prima del 1961
Sua Maestà la Regina Elisabetta II d_Inghilterra riceve fiori dalle giovani ballerine de La Scala in occasione della prima del 1961
Natale a Milano, fotografia aerea anni Settanta
Natale a Milano, fotografia aerea anni Settanta
Maria Callas, Arturo Toscanini, de Sabata e Zuffi in platea alla Scala, 1954
Maria Callas, Arturo Toscanini, de Sabata e Zuffi in platea alla Scala, 1954