
Lampoon SOAP – un sapone dagli scarti di fico d’India, con Satinine
Lampoon SOAP – un sapone dagli scarti di fico d’India, con SatinineIl sapone, cultura e metafora: dalla ricerca del numero di Lampoon dedicato al sapone, nasce una collaborazione con il marchio milanese Satinine – il fico d’India da scarti agricoli
Lampoon crea un sapone che unisce ricerca, territorio e storia
La collaborazione tra Lampoon e Satinine nasce dopo la pubblicazione di Lampoon Issue 32 – SOAP, il numero dedicato al sapone. Il sapone non è considerato soltanto un prodotto per lavare la pelle, ma un punto di osservazione più ampio: ciò che separa pulito e sporco, ciò che passa nei sistemi idrici, ciò che resta come residuo sui tessuti e sull’ambiente. SOAP analizza il sapone come gesto quotidiano, come tecnologia domestica, come simbolo delle tracce che vogliamo rimuovere e di quelle che invece continuano a emergere. Il sapone diventa così sia uno strumento per interrogare i processi materiali – l’acqua, le fibre, i residui invisibili – sia una metafora delle contraddizioni che ogni individuo porta con sé: ciò che si tenta di cancellare, ciò che ritorna, ciò che rimane.
A partire da questo lavoro editoriale, il tema viene tradotto in un oggetto concreto: una saponetta realizzata insieme a Satinine, il marchio milanese di fragranze tornato attivo nel 2025 grazie ad Andrea Galletti, che ha recuperato l’archivio storico della famiglia Usellini, ricostruito il progetto in ogni sua parte e aperto il primo store in Via Mengoni, nel centro di Milano.
L’indagine teorica diventa un bar soap, sviluppato con una formulazione tracciabile e interamente prodotta in Italia. La base è vegetale, gli oli hanno origine definita e l’estratto di fico d’India proviene da scarti di potatura in Sicilia. La scelta di lavorare con una saponetta solida è deliberata: un formato semplice, leggibile, che permette di mettere in fila questioni di materia, filiera, residui nell’acqua.
Perché il fico d’India? La ricerca scientifica, biochimica e le nuove applicazioni cosmetiche
Il fico d’India, Opuntia ficus-indica, è una pianta originaria del continente americano che, dal XVI secolo, si radica lungo le coste del Mediterraneo, trovando in Sicilia uno dei suoi habitat più stabili. La capacità di crescere con pochissima acqua e di colonizzare terreni marginali ha reso questa specie una risorsa agricola resistente e continua nel tempo. Per generazioni è stata utilizzata come alimento, foraggio o barriera vegetale, ma negli ultimi anni il suo profilo scientifico si è ampliato: oggi il fico d’India è una delle piante maggiormente studiate per il contenuto di polisaccaridi, polifenoli e lipidi insaturi, con applicazioni che attraversano nutraceutica, scienza dei materiali e cosmetica.
La struttura della pianta è articolata e ogni sua parte presenta una composizione specifica. I cladodi, o pale, sono costituiti da tessuti ricchi di mucillagini polisaccaridiche, responsabili della capacità della pianta di trattenere e conservare acqua. I frutti, oltre ai pigmenti betalainici, contengono antiossidanti naturali e zuccheri solubili, mentre i semi ospitano un olio con un’elevata percentuale di acido linoleico, un acido grasso cruciale per la funzione della barriera cutanea. Questa ricchezza compositiva è alla base dell’interesse scientifico recente, che considera il fico d’India una matrice naturale versatile, capace di fornire ingredienti funzionali a più settori.
Evidenze scientifiche sulle proprietà cutanee del fico d’india
Le ricerche su Opuntia ficus-indica applicata alla pelle hanno prodotto risultati coerenti negli ultimi anni. Uno degli studi più citati, “Hydration and Barrier Effects of Opuntia ficus-indica Extracts on Human Skin”, dimostra che estratti di cladodi inseriti in emulsione aumentano l’idratazione cutanea e riducono la perdita d’acqua transepidermica, grazie alla formazione di un film idrofilo sulla superficie dell’epidermide.
Parallelamente, l’olio di semi è stato analizzato in “Dermal Benefits of Linoleic-Rich Oils from Opuntia ficus-indica Seeds”, mostrando un miglioramento misurabile del recupero della barriera lipidica e della qualità dello strato corneo in soggetti con pelle secca o sensibilizzata. In entrambe le ricerche emerge un principio comune: la combinazione di polisaccaridi e acidi grassi essenziali offre un supporto utile alle funzioni fisiologiche della pelle, soprattutto quando sottoposta a fenomeni di disidratazione o stress ossidativo.
La mucillagine estratta dai cladodi è stata inoltre indagata per la sua capacità di favorire la migrazione e la vitalità dei cheratinociti, con dati sperimentali che mostrano un’accelerazione dei processi di riparazione in condizioni controllate. Pur non avendo una traslazione diretta in ambito terapeutico, queste osservazioni confermano che i polisaccaridi del fico d’India interagiscono con la superficie cutanea in modo favorevole, contribuendo a una migliore tollerabilità dei prodotti destinati a un uso frequente.
Upcycling e valorizzazione degli scarti agricoli del fico d’india
Uno dei filoni di ricerca più significativi degli ultimi anni riguarda l’utilizzo dei cladodi provenienti dalla potatura. Questa biomassa, solitamente considerata scarto, può essere trasformata in estratto polisaccaridico con proprietà fisiche e reologiche compatibili con le formulazioni cosmetiche. Studi condotti su coltivazioni siciliane mostrano che la resa in mucillagine è elevata e stabile, aprendo la strada a modelli di economia circolare basati su risorse già presenti nel territorio e non coltivate appositamente per la produzione cosmetica. Lo stesso vale per i residui della lavorazione dei frutti, spesso ricchi di polifenoli con attività antiossidante.
Nel sapone solido la funzione primaria è la detersione, ma il processo di saponificazione e il contatto con acqua dura possono temporaneamente modificare il film idrolipidico della pelle, generando secchezza o tensione. L’integrazione di estratti di fico d’India risponde a questa necessità funzionale: le mucillagini dei cladodi formano un film leggero che trattiene acqua e modera la disidratazione post-lavaggio, mentre la frazione lipidica dei semi sostiene la ricostruzione della barriera nelle fasi successive. La ricerca non attribuisce a questi ingredienti gli effetti di una crema leave-on, ma ne riconosce il ruolo nel rendere la detersione meno aggressiva e più equilibrata.
La saponetta di Lampoon realizzata con Satinine a partire dagli scarti del fico d’India
La saponetta sviluppata da Lampoon in collaborazione con Satinine applica le conoscenze scientifiche oggi disponibili sul fico d’India. L’estratto utilizzato proviene da cladodi di potatura raccolti in Sicilia. La base della formula è composta da oli vegetali di origine definita, lavorati in Italia senza EDTA né coloranti, secondo criteri di tracciabilità e controllo della filiera. L’inserimento dell’estratto è una scelta funzionale: i polisaccaridi filmogeni, gli antiossidanti naturali e gli acidi grassi insaturi del fico d’India rispondono a ciò che un sapone può fare per la pelle.
Il modo in cui questa saponetta viene formulata non dipende solo dalle ricerche sul fico d’India o dal tema di SOAP, ma anche dalla storia e dal metodo di chi la produce. Per capire perché Lampoon ha scelto proprio Satinine come partner, e perché questa collaborazione passa da una filiera corta e da un laboratorio interno, bisogna tornare alle origini del marchio e alla profumeria milanese di fine Ottocento.

Le origini storiche di Satinine e il contesto della profumeria milanese di fine Ottocento
Satinine è un ritorno. Il marchio nasce a Milano nel 1883, fondato da Lorenzo Usellini in un periodo di effervescenza per la profumeria artigianale italiana. In quegli anni la città ospita decine di piccole maison, laboratori, distillerie di essenze naturali e negozi che intrecciano design e profumo.
Satinine attraversa il Novecento, si adatta ai linguaggi visivi delle diverse epoche, ma dopo la Seconda guerra mondiale – come tante realtà artigiane – viene travolto dalla nuova stagione dei profumi firmati dai grandi stilisti. Il nome si eclissa.
La sua storia però non si spegne mai del tutto. Rimane negli archivi della famiglia Usellini, nelle bottiglie superstiti, nei piccoli stampati che hanno accompagnato la vita del marchio per decenni. Ed è da lì che tutto ricomincia. Oggi questo nome riemerge grazie ad Andrea Galletti, milanese, con alle spalle un lungo percorso nel mondo della profumeria. Il punto di partenza non è un’operazione nostalgica, ma quasi un debito con la città: riportare a Milano un pezzo della sua storia olfattiva, dandogli una nuova forma.
Le sincronicità personali tra Andrea Galletti e la famiglia Usellini: il punto di partenza inatteso per la rinascita di Satinine
Quando Andrea Galletti inizia a interessarsi al marchio, scopre una serie di corrispondenze che rendono il progetto qualcosa di più di una semplice operazione imprenditoriale. Una parte della famiglia di Galletti è originaria di Arona, sul Lago Maggiore; proprio da Arona proviene anche la famiglia Usellini, fondatrice di Satinine. Anche la struttura familiare è la stessa: allora erano due fratelli e una sorella, oggi sono tre fratelli coinvolti nel nuovo progetto.
«Più andavo a fondo nella storia di Satinine, più vedevo queste risonanze con la storia della mia famiglia», racconta Galletti.
C’è anche un precedente professionale che rimane sullo sfondo: a ventidue anni lavora a Londra da Selfridges, vendendo le candele di Cire Trudon, storico marchio francese rilanciato da Ramdane Touhami attraverso un lavoro radicale sugli archivi, sul nome, sui formati, sul punto vendita. Quell’operazione di revival, fatta con rigore e libertà creativa, rimane un riferimento mentale: «Mi ha piantato un’idea: un giorno volevo lavorare su una rinascita mia».
L’archivio storico di Satinine: calendarietti, bottiglie d’epoca e un’identità visiva costruita sull’idea di continua reinvenzione
Quando Galletti si avvicina a Satinine, la prima porta d’accesso è l’archivio. La famiglia Usellini apre i cassetti: bottiglie d’epoca, scatole, materiali stampati, e soprattutto i “calendarietti” – piccoli calendari tascabili che, tra gli anni Dieci e gli anni Quaranta, le aziende usavano come mezzo pubblicitario.
Ogni anno Satinine ne produce uno diverso: cambia il carattere tipografico, cambiano le illustrazioni, il tono, la campagna. Non c’è una linea fissa, ma una continua reinvenzione. È come se il marchio sperimentasse incessantemente, lanciando una nuova identità visiva a ogni inizio d’anno.
Da qui nasce il lavoro sull’immagine contemporanea. Il logo attuale viene dal calendario del 1928: è stato “tirato”, reso più netto, ma il nucleo è lo stesso. Altri elementi grafici provengono dagli anni ’30. A un certo punto, però, l’archivio smette di essere una griglia rigida: è troppo ricco, troppo contraddittorio per ridurlo a un solo simbolo o carattere.
L’idea diventa allora quella di una identità plurale: un logo primario, uno secondario, più sistemi grafici che coesistono a seconda del contesto. Nessun feticismo del “segno unico”; piuttosto una logica modulare. Galletti sintetizza così: «Non credo che oggi un marchio debba avere una sola voce: è il contesto a dettare l’identità».
Satinine come eccezione nella storia della profumeria italiana: dal Liberty all’Art déco, controcorrente sin dall’inizio
Per capire Satinine bisogna inserirla nel paesaggio della profumeria italiana del tempo. Prima della Seconda guerra mondiale, il Paese vive una stagione d’oro di piccoli produttori artigianali, soprattutto a Milano. Dopo il conflitto, molti chiudono; inizia l’era dei profumi dei grandi stilisti, che schiacciano quasi tutto il resto.
Già allora Satinine non si allinea al gusto dominante. In un’Italia dominata dallo stile Liberty – linee morbide, fiori, vetri decorati – il marchio sceglie la strada opposta: geometrie nette, influenze Art déco, una disciplina visiva quasi architettonica. Anche nel nome delle fragranze si posiziona controcorrente.
Nel contesto italiano prevalgono nomi educati, registri di buone maniere – Violetta, Acqua di Fiore, un immaginario legato alla grazia e alla compostezza. Satinine invece introduce titoli narrativi e più audaci: Orchidea Nera, Caccia alla Volpe. Dentro questi nomi entrano lo sport, la mascolinità, un mondo “attivo” e quasi cinematografico.
Quella che oggi chiameremmo “narrazione di marca” c’era già, solo in forma embrionale. «L’audacia è ciò che rendeva Satinine distinta allora, ed è quello che vogliamo portare avanti oggi», è l’idea che guida il lavoro di Galletti.
La ricostruzione olfattiva di Orchidea Nera e Caccia alla Volpe: cromatografia, materiali vietati e reinterpretazione contemporanea
Tra i materiali d’archivio spiccano due fragranze degli anni ’30: Orchidea Nera e Caccia alla Volpe. Alcuni flaconi arrivati a Galletti sono ancora sigillati. Il primo passo non è annusarli, ma analizzarli: si ricorre alla cromatografia per capire, per quanto possibile, la struttura delle formule originali.
Qui emerge una scoperta inattesa: il profilo cromatografico di Orchidea Nera mostra somiglianze con quello di Black Orchid di Tom Ford, uscito molti decenni dopo. Le due fragranze non sono mai state sul mercato contemporaneamente; eppure, a livello tecnico, qualcosa le avvicina. «Ti chiedi se ci sia stata un’influenza indiretta, se in qualche modo la storia di Orchidea Nera abbia incrociato il naso dietro Black Orchid», osserva Galletti.
Il lavoro di ricostruzione, però, non è un esercizio di replica. Un profumo degli anni ’30, aperto oggi, non ha più l’odore che aveva all’origine: ossidazione, molecole collassate, trasformazioni della materia ne cambiano radicalmente il profilo.
In più, molte materie prime di allora sono state nel frattempo vietate o classificate come cancerogene, soprattutto quelle di origine animale. La ricostruzione diventa quindi un processo di interpretazione: decifrare le intenzioni, aggiornare la formula con materiali moderni, mantenendo il nucleo identitario ma traducendolo in un linguaggio olfattivo contemporaneo. «Non volevamo replicare il passato: il punto era reinterpretarlo. Il passato ci ha dato la direzione, ma è il presente che deve fare il lavoro», sintetizza.
La filiera corta e completamente italiana: una scelta identitaria che ricostruisce il profumo attraverso biodiversità e terroir
Un aspetto centrale del nuovo Satinine è la decisione di lavorare, per quanto possibile, con materie prime italiane, coltivate ed estratte sul territorio. L’idea parte da un paradosso: in campo alimentare, l’Italia è tra i Paesi con la maggiore biodiversità al mondo, ma in profumeria gran parte di questa ricchezza non viene valorizzata.
In un settore dominato da filiere francesi, molte materie che potrebbero essere coltivate e lavorate in Italia – menta, basilico, cedro, limone – finiscono in catene produttive gestite altrove. Galletti sceglie di invertire il flusso: «Volevamo usare ingredienti che Satinine avrebbe usato un secolo fa. All’epoca non si rifornivano in Provenza: usavano ciò che avevano vicino, basilico, menta, legni cresciuti su suolo italiano».
La ricerca si traduce in una rete di piccoli produttori: lavanda dell’area del Monte Bianco e del Chianti, gelsomino dalla Calabria, palissandro raccolto e lavorato all’interno del Paese. Non si tratta soltanto di geografia, ma anche di olfatto: la lavanda alpina non profuma come quella della Provenza, è un’altra materia, con vibrazioni diverse. L’obiettivo è costruire un “profilo Italia” riconoscibile anche nel jus, non solo sulla carta.

Il laboratorio di profumeria di Bovisa: perché Satinine ha scelto la produzione interna e il totale controllo delle materie prime
Per coerenza con questa logica, Satinine decide di produrre “in casa”. Il marchio acquisisce un laboratorio di profumeria a Bovisa, quartiere a nord di Milano, dove vengono sviluppate e realizzate le fragranze.
È una scelta che va contro il flusso dominante, in cui spesso i brand si limitano a commissionare le formule a grandi multinazionali del settore. Un fornitore esterno ti consegna il concentrato di profumo e la formula, e il brand si occupa di packaging, comunicazione, distribuzione.
Galletti, dopo anni in questo sistema, sceglie un’altra strada: «Non riuscivo a tornare a quel modello. Se diciamo che qualcosa è fatto in Italia, allora deve essere davvero fatto qui, fino alla materia prima».
Il controllo sulla filiera – dal campo al laboratorio, fino allo store – diventa l’ossatura del progetto. Non è solo una questione di qualità percepita, ma anche di trasparenza: dichiarare esattamente da dove arrivano gli ingredienti e come vengono trattati.
Design del flacone e ispirazioni déco: il ruolo dell’architettura milanese anni ’30 nella nuova estetica di Satinine
c, periodo in cui anche l’architettura della città sperimenta forme più nette e volumi più decisi. In questo contesto nasce il flacone, disegnato da Franz Degano.
La bottiglia ha una presenza forte, geometrica, quasi architettonica. Il tappo è volutamente sovradimensionato, come un elemento di tensione visiva. Esiste in due versioni: una in bio-resina, più leggera, e una in marmo, che enfatizza il legame con la materia e con la tradizione scultorea italiana.
Anche qui, l’archivio è punto di partenza ma non gabbia: le proporzioni, i riferimenti, le linee arrivano dai materiali degli anni ’30, ma vengono tradotti in un linguaggio adatto a oggi, senza cadere nell’esercizio di stile “vintage”.
Lo store di Via Mengoni a Milano: una portineria contemporanea che unisce Art déco e senso di accoglienza
Se il flacone porta l’eco della Milano déco, lo store ne traduce l’atmosfera urbana. Lo spazio si trova in Via Mengoni, tra il Duomo e La Scala: un punto di passaggio, ma anche un luogo simbolico per la città.
L’interior è affidato a una giovane progettista, Mara Bragagnolo, che costruisce il concept attorno alla figura della portineria milanese: il luogo di ingresso dei palazzi, dove il portinaio accoglie, controlla, ma soprattutto conosce e accompagna la quotidianità dei residenti.
Lo spazio di Satinine diventa così una sorta di portineria contemporanea del profumo: un ambiente lussuoso ma non intimidatorio, dove ci si può sedere su una panca con sgabelli nascosti, prendere un caffè o un bicchiere di vino, fermarsi a parlare.
Una parete richiama direttamente i portachiavi delle concierge anni ’30; i riferimenti architettonici rimandano a progettisti come Caccia Dominioni e Portaluppi. L’obiettivo è creare un luogo “abitato”, non un semplice contenitore di prodotto.
L’etica concreta di Satinine: vuoto a rendere, assenza di plastica e materiali davvero essenziali
Sul piano etico, Satinine sceglie una via pragmatica, lontana dalle grandi dichiarazioni. Il marchio riprende il sistema del vuoto a rendere, che già utilizzava negli anni ’30: le bottiglie vuote possono essere riportate in negozio, vengono pulite, controllate e rimesse in circolo. Il cliente acquista il refill a una frazione del prezzo della bottiglia nuova.
La plastica è ridotta allo stretto indispensabile, principalmente per componenti tecnici come il vaporizzatore e parti del tappo. Niente cellophane, niente scatole con inserti in plastica, niente gomma superflua: vetro, carta, materiali essenziali. «Non è una strategia di sostenibilità, è una scelta etica: fare le cose bene senza trasformarlo in uno statement», è il tono con cui Galletti definisce questo approccio.
Dalla “nicchia” alla specialty perfumery: una nuova definizione per un nuovo pubblico
Dopo anni di lavoro nel settore, Galletti rifiuta la parola “nicchia”, diventata una etichetta generica che abbraccia realtà molto diverse per qualità, scala e rigore. Preferisce parlare di “profumeria specialty”, facendo un parallelo con il mondo del caffè specialty: non si tratta solo di essere piccoli, ma di avere una ricerca precisa sulle materie prime, una filiera controllata, una produzione interna coerente con la propria visione.
Il pubblico di riferimento è composto da persone che vogliono sapere come le cose sono fatte, che cercano prodotti “rari” non tanto per quantità limitata, quanto per densità di pensiero e cura.
Il lavoro invisibile dietro la rinascita di un marchio storico e la misura reale del successo secondo Satinine
Dietro la rinascita di Satinine c’è anche una lunga parte invisibile fatta di burocrazia, diritti, registrazioni: quasi un anno di lavoro con consulenti legali, acquisizione di archivi, tutela del nome, dialogo con un sistema normativo, quello italiano, complesso e stratificato.
Nella distribuzione delle energie, le priorità sono chiare: lo store, il marchio, il prodotto, la fragranza. La maggior parte delle risorse economiche e del tempo viene concentrata lì, insieme alla costruzione del laboratorio di Bovisa. «Riportare in vita un marchio storico non bastava: Satinine aveva bisogno di sostanza, di struttura, di controllo dall’interno verso l’esterno», è la logica che guida il progetto.
La misura del successo, almeno nella fase iniziale, è volutamente concreta: vedere il negozio funzionare, osservare come le persone entrano, provano, ritornano; percepire l’orgoglio del team, la risposta dei milanesi e dei visitatori.In prospettiva, l’idea di aprire altri spazi in città chiave esiste, ma non è la priorità immediata. Per ora l’asse resta Milano: la città da cui Satinine è nata, il luogo in cui ritorna e in cui, di nuovo, si lascia annusare, vedere, abitare. Galletti lo riassume così: il giudice finale, alla fine, «è solo il cliente».
Matteo Mammoli

