Dai cieli blu dipinti da Fra Carnevale alla metafisica architettonica della Piazza Rinascimento, Urbino rivela la sua anima artistica attraverso prospettive, teoremi e simboli
Urbino Arcropoli
Urbino è un luogo che risulta sempre incredibile, siderale come un’astronave pronta a staccarsi dal suolo verso ignote galassie. Il panorama che incastona il nucleo urbano arroccato, d’un tratto sboccia a perdita d’occhio, lasciando il verde fondovalle agrario e salendo per gradi verso l’alto. La vista è circolare. Si apre a onde concentriche su un blu Madonna accarezzato da bianche grafie di nuvole filiformi o impalpabili. Sono quelle di Fra Carnevale. Tracciano linee d’ombra che diventano radiazioni numeriche ed ermetici teoremi incisi sulle colline a tumulo. Nubi che veleggiano indifferenti tra fondali d’architetture stereometriche e interrogative, sullo scorcio selciato di arterie deserte e slarghi silenti in densa penombra. Finisci dentro la tavola della “Città ideale”, sei ghermito da quello spazio polifonico e concettuale, congelato da prospettive platoniche a ripetizione. Sarà banale ripeterlo, ma è un’esperienza che ogni volta ti tocca come fosse una sensazione mai provata prima.
Piazza Rinascimento: Cuore Metafisico di Urbino
Piazza Rinascimento è bianca di una pietra d’avorio e d’osso, rosata di terracotta ruvida e appena cipriata. Al centro di questo ventoso stanzone in declivio, svetta un obelisco egizio di granito rosso d’Assuan del VI secolo a. C., dono alla sua città del cardinale Annibale Albani, appassionato di numismatica, di letteratura ecclesiastica e di antichità come il più celebre fratello Alessandro, che lo ritrova a Roma nel 1737. Non è molto alto, l’obelischino, ma assai grazioso e il porporato lo manda fin quassù per celebrare in patria i fasti del pontificato dello zio Clemente XI.
La piazza è pura metafisica dechirichiana deprivata dal tellurico ruggine del mattone ferrarese. Un parallelepipedo oblungo che a intermittenza s’imbeve e crepita di luce solare come fosse fatto di specchi antichi che hanno smarrito l’argentatura.


Il Palazzo Ducale: Architettura Rinascimentale a Urbino
La dimora voluta da Federico da Montefeltro, condottiero rinascimentale al soldo di principi più potenti, capostipite d’un’effimera dinastia e soprattutto mecenate di Piero della Francesca, di Giusto di Gand, di Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini, si erge con andamento orizzontale lungo il lato est della piazza. Compone una fuga di proporzioni solenni e unitarie, ma insieme frattali. Fasce marcapiano a ghirlande e cornici di marmo michelozziane. Il mood stilistico dell’architettura fiorentina del Quattrocento qui arriva all’acme della cifra geometrica che lo innerva. Si spoglia però del pondus e di ogni parlante prosaicità, per librarsi nell’astrazione e nell’utopia oltre ogni ragione utilitaristica. Trame scabre di laterizi attendono invano paramenti marmorei che le vestano.
Federico da Montefeltro: Il Duca e il Mecenate
Si faceva ritrarre sempre di profilo Federico, come un faraone egizio, avendo mezza faccia sfregiata da un fendente di spadone ricevuto durante un combattimento. Era uno che la vita la rischiava sul campo di battaglia o mettendosi in discussione con artisti e letterati, consultando senza timore indovini, auguri e scienziati. I due torrini, razzi di propulsione che guardando a valle bucano il cielo, paiono rubati nelle pagine d’una fiaba dei Grimm poco Disney, piuttosto illustrata da maestri dell’attesa come Alberto Savinio o Casorati. Le logge ad arco sono pensate come reliquiari di marmo per l’ostensione rituale del casato, proprio come quella albertiana di Sant’Andrea a Mantova destinata a mostrare reliquie taumaturgiche. Mistica della gens, palco per lo spettacolo araldico e la comunicazione. Uguaglianza filosofica e interazione psichica con un intero popolo assurto a riflesso di una sola volontà. Quante illusioni perdute e generose, quante ambizioni e bellezza. Quanto silenzio è rimasto intrappolato in questa scatola palatina.
L’Architettura di Urbino: Tra Utopia e Natura
“Se prima si chiudeva fuori dalle mura il paesaggio- osserva Carlo Bo- l’inventore della seconda facciata ha fatto della propria opera uno scenario pronto per essere aggiunto al lavoro eterno della natura.”
Un edificio costruito sul vuoto e contro il vuoto, l’aria agganciata alla terra. Sospensione semantica, effrazione di senso e per contro radici profonde che si insinuano nella roccia dura dell’acropoli ducale. Effetti e convergenze che contengono stati d’animo, segreti e misure differenti. Natura naturans e natura addomesticata, solitudine e città, vuoto aereo e spazio abitato si compenetrano. Si annulla ogni distanza tra committente e spettatore, in accordo con i dettami rappresentativi della pittura di Piero della Francesca. La barriera del tempo si sgretola, così si spalanca l’eternità e una leggerezza euclidea che è armonia di sfere.
Il Cortile del Palazzo Ducale: Spazio di Convergenza
Piazza e cortile, fuori e dentro non esprimono più una contraddizione o dichiarano una partita di poteri. Federico da Montefeltro senza timore abbatte tutti i filtri ed elimina le separazioni gerarchiche del vecchio palazzotto del conte Antonio. Il cortile interno levita e sfiora l’assurdo al sole di mezzogiorno. Catartico, quasi pischedelico ti assorbe lo sguardo ed ogni percezione. Diventi una cellula, il segmento spaziale d’un tutto che ti illudi di controllare. Luciano Laurana è il maestro del gioco, regista dell’inganno e della verità. Le iscrizioni corrono rapsodiche, danzano le prospettive vitruviane in un respiro distaccato e derviscio. Ritmo d’un culto aritmetico come una messa di Josquin Desprez.
Lo Studiolo: Scrigno di Meraviglie nel Palazzo Ducale
A palazzo ci torniamo di notte, la luna candida e fredda invade l’arcone della loggia, circoscritta da lacunari lapidei e da paraste archeologiche corinzie. Verklärte Nacht op.4. I marmi trasudano la luce del giorno come una pulsar elettromagnetica. Equilibrio umanistico d’una sintassi dalla perfezione fuori scala. Anfratti e volte protettive si confrontano con volumetrie per giganti ed eroi che sconcertano e innamorano. La forma urbis scomposta in episodi, citazioni e accenti fantasmatici, quella ambrata o ghiaccia prediletta da Federico Barocci quale esorcismo di radici mai recise. Sotto la coltre notturna si tramuta in cristallo e metallo polito.
Lo Studiolo è una scatola magica di tarsie lignee trompe-l’oeil, scrigno di mille e una Wunderkammern. Scacchiera intellettuale e regesto di saperi anche negromantici, suggeriti dagli intarsi d’oggetti, vedute ed animali-icona sottratti ad ogni possibile realtà. La cella del duca è stringata e avvolgente quanto quella erudita del San Girolamo di Carpaccio. Una piccola grotta filosofica dove imprigionare e pesare pensieri, cullando desideri, sogni e aspirazioni. Sotto quel soffitto stemmato da oreficeria medicea si dipana la galleria di grandi spiriti immortalata dal Berruguete, immersa in una muta e avvincente conversazione che purtroppo non conosceremo mai. Il direttore della Galleria Nazionale delle Marche Luigi Gallo, lo Studiolo montefeltrino lo definisce una sorta di organismo totalizzante, un cocoon visionario e un laboratorio. Spera di riportarvi almeno in visita da Parigi quei signori del pensiero, della parola e del vaticinio che ne sono stati rapiti tanti anni fa.

I Grandi Artisti di Urbino: Raffaello, Bramante e Barocci
Urbino città di triadi magiche che ne riverberano il prestigio ancestrale, si affida al linguaggio del simbolo imperniato sulla cabala del tre. Tre infatti sono gli arcani personaggi in conversazione silente i cui sguardi non s’incrociano, plasticamente posizionati a lato della “Flagellazione” pierfrancescana; Leon Battista Alberti, il matematico, teorico e astrologo Luca Pacioli, il Pictor Optimus Piero della Francesca. Un tris di geni toscani che si incontra a Urbino causando in pieno Quattrocento un corto circuito visionario e programmatico che ha il sapore di una sfida proiettata sul futuro. Infine la terna d’assi per eccellenza, le star che qui hanno visto la luce.
Il divino Raffaello Sanzio, che fuggito sulla strada di Roma non tornerà più indietro dimenticando l’acropoli urbinate, mastro Donato Bramante e l’allucinato talento di Federico Barocci. Trinità che incastona un’epoca irripetibile, una deriva progettuale ed ermeneutica senza tempo fiorita tra la rinascenza e l’estrema fabula del manierismo. La città in forma di palazzo, come la definisce Baldassar Castiglione, scandisce una dinamica urbana mai vista, plasmando una spazialità raccolta ed estraniante, scacchiera tramata di promesse e modernità.
Paolo Volponi e l’Anima di Urbino
Per lo scrittore urbinate Paolo Volponi (1924-1992), figura intellettuale calata in un forte impegno politico e sociale e stretto collaboratore di Adriano Olivetti, la città era delocalizzata. La leggeva come una sorta di acropoli greca in senso politico, morale e ideologico – elementi coincidenti con il profilo estetico -, quello pieno della polis appunto. Il palazzo altro non era se non il primo esempio di una dimora principesca posta in dialogo aperto con una comunità. Ne riassumeva i contorni e le attese, come dimostrano i lunghi sedili lapidei che ne costeggiano parte del perimetro, ancor oggi prediletti per una sosta o un’osservazione del proprio territorio dagli abitanti d’Urbino. Prima di allora nessun’arca di potere aveva mostrato con tale naturalezza la propria facies più intima. Né rivelato con tanta sprezzatura la sua energia, la narrativa e la mistica delle appartenenze reciproche. Alberti dà il la all’utopia costruita con le sue teorie che rimodellano in maniera critica l’eredità classica. Il suo credo deflagra grazie ad altri artefici nel cuore del Montefeltro, quanto nella votiva Pienza di Enea Silvio Piccolomini.
Urbino appare almeno per cenni in quasi tutti i libri di Volponi, specie in Sipario Ducale. Le visioni dello scrittore e politico, sodale di Mastelletta e di Pasolini, cui dedica una poesia appassionata a cinque anni dalla tragica scomparsa, che analizzano le dinamiche del capitalismo e preconizzano l’affermazione globale del post-capitalismo, oggi più che mai appaiono profetiche, quasi sconcertanti. Giovanni Raboni sottolineava il messaggio delle tematiche centrali della poetica volponiana, imperniato sullo scontro tra il mondo della natura e della laboriosità umana con il capitale e il lavoro alienato, la perdita insanabile del sentimento della totalità e le ferite inferte al paesaggio geografico e morale del Paese, costruito lungo millenni. La prosa di Volponi ti inghiotte opulenta ed ipnotica, talvolta aguzza e ruvida, ardua da scavare come i campi ghiacciati d’inverno. Cosciente senza esagerazioni, soffusa di ironia e malinconia nebulosa. Contraddittoria come l’essenza di questa città lontana da tutto, fluttuante tra cielo e terra nel cuore dell’Italia centrale.