Federico Barocci in mostra a Urbino: al tramonto del Manierismo e affacciato sul Barocco, traspose la natia Urbino nella sua Gerusalemme terrestre e celeste. Quasi 80 tra dipinti e disegni tornano nella capitale roveresca
Federico Barocci. Urbino. L’emozione della Pittura Moderna. Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo ducale di Urbino, 20 giugno-6 ottobre 2024
Ritiratosi nell’alveo materno del Montefeltro, Federico Barocci riuscì a imporre la sua statura d’artista e ad essere il più ammirato e richiesto pittore di dipinti sacri della seconda metà del Cinquecento. Un temperamento sperimentale e schivo, che cambia sempre per rimanere se stesso. Perfezionista e misantropo. Rifugge lo splendore dell’Urbe e i suoi intrighi, madrigali e onori, preferendo la rassicurazione provinciale sotto controllo di casa propria. Vede la luce in una famiglia d’artisti da generazioni a Urbino, ducato lontano dai maggiori centri culturali e di mecenatismo ma ancora rilevante sullo scacchiere politico internazionale e ben connesso alle corti europee.
Difficile descrivere l’opera di Federico Barocci (1533-1612), un artista che Anna Maria Ambrosini Massari racconta secondo una nuova geografia che ne sfata in parte l’isolamento urbinate in cui lo incapsulava Andrea Emiliani. La monografica di Palazzo Ducale, sottolinea Luigi Gallo, dialoga anzitutto con Urbino ed è dedicata al pittore che più di ogni altro nella sua esperienza artistica «ha cristallizzato i caratteri della città, rappresentandola in ogni dipinto nel paesaggio circostante immersa come in una geografia sentimentale che la pone al centro di un universo poetico. Una supernova che illumina il crepuscolo politico del ducato».
Quasi ottanta tra dipinti e disegni tornano nella capitale roveresca da musei nazionali e internazionali, tra cui gli Uffizi e i Musei Vaticani, lo Staatliche di Berlino, il Louvre e il Kunsthistorisches di Vienna, il British, le raccolte reali inglesi e la collezione Devonshire, il Prado e il Metropolitan di NYC, idealmente celebrando la fortuna internazionale riscossa da Barocci lungo almeno tre secoli. Federico Barocci Urbino. L’emozione della pittura moderna è la rassegna monografica curata da Luigi Gallo e Annamaria Ambrosini Massari, con Giovanni Russo e Luca Baroni, alla Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo ducale di Urbino, fino al 6 ottobre 2024. Barbara Jatta, direttrice dei Musei Vaticani, da cui provengono tre dipinti, intervenendo alla preview del 18 giugno, l’ha definita “la mostra dell’anno”.
La Visitazione e la Presentazione di Federico Barocci, “pittore hoggidì in Italia forse il primo”
Federico Barocci, “sorriso continuo della pittura”, non è solo un inventore di pale d’altare come quella della cattedrale di San Lorenzo a Perugia che, viste le dimensioni è stato arduo estrarre dal suo alveo dopo quattro secoli o la Visitazione della Chiesa Nuova Roma. Irraggiungibile oggetto del desiderio dei grand touristes britannici nel Settecento, Gavin Hamilton asserisce che nel 1769 il Conte Spencer, un antenato di Lady D, tentò invano di acquistarla.
Ho avuto la fortuna di ammirarla da vicino, durante il restauro in loco affidato a Laura Cibrario e Fabiola Jatta. La Visitazione (1583-86), così come la Presentazione al tempio della Vergine Maria nella stessa chiesa dei padri oratoriani alla Vallicella, è uno squarcio filmico di Max Ophüls, un varco onirico intinto in una confidenza col divino che ricorda il pietismo bachiano per rispondenze tonali e intimità teologica. Tradizione vuole che il dipinto, arrivato quando si stavano allestendo gli altari del nuovo tempio, propiziasse la meditazione di “Pippo Bono”, il fiorentino San Filippo Neri campione della controriforma e fondatore degli Oratoriani, portandolo dritto all’estasi. Sta di fatto che la pala produsse vasta sensazione e generale plauso quando apparve a Roma. Era moderna, diversa, inattesa, il Leit-Motiv baroccesco coltivato in distanza dalla pazza folla. La Presentazione, (1593-1603), fece disperare per il ritardo della consegna il cardinale Cesi che l’aveva ordinata per la propria cappella della Chiesa Nuova già nel 1590. Solleciti, richiami e missive accorate non smossero d’un milllimetro l’artista, che il porporato riconosceva quale “pittore hoggidì in Italia forse il primo.”

Federico Barocci ritrattista: il più potente dei ritratti è l’ignoto nobiluomo in nero e gorgiera del 1602
Barocci è un ritrattista che spalanca itinerari inediti, dove il Manierismo trascolora in lieviti barocchi. Sfilano gli autoritratti e i gentiluomini in velluto nero dalla fisionomica interrogativa. Francesco Maria della Rovere fiero in corazza da parata cesellata d’oro, colletto candido e banda di seta cremisi, elmo e rotella da parata, sfolgora di gloria al ritorno dalla vittoria di Lepanto sulla flotta ottomana, nel 1572. Ecco la fanciulla degli Uffizi dallo sguardo limpido, forse Lavinia Feltria della Rovere, amica del Tasso e consorte del marchese del Vasto. Il più potente dei ritratti barocceschi è l’ignoto nobiluomo in nero e gorgiera del 1602. Atteggiamento malinconico e inquieto piglio di dominio, mani stupende e perfino muliebri. Firmato e datato sullo schienale della sedia.
Naturalista e figlio delle sottigliezze della Maniera, Barocci si rifugia nell’allegoria mentre immortala animali da cortile, gallinelle e pecore, cani, gatti e vitelli dagli occhi umanizzati, fotografando in primo piano cesti colmi di stoviglie di peltro, bacili e rinfrescatoi di bronzo, piatti sporchi abbandonati sul pavimento. Una cascata di broccato d’oro a ramages giada adorna la Maddalena del Noli me tangere degli Uffizi (1590), bionda coquette commossa dall’apparire così fisico del Cristo “Hortolano”. Dietro, circonfusi di toni boreali che fanno venire in mente Turner e Friedrich, i torrini di Palazzo Ducale svaniscono in trasparenza nel crogiolo opalescente di luce mattutina. Cappelli di paglia con nastri acquei abbandonati sui gradini dello scalone del palazzo montefeltrino, plastico sventolare di panni d’ametista e ambra, peridoto, rubino e topazio, accarezzati da una brezza soprannaturale profumata d’incenso.
Federico Barocci: una poetica intrisa di fede che mira alla perfezione formale
Il San Girolamo della Galleria Borghese, anno 1600, binomio di peau d’ange e glicine che sarebbe piaciuto a Cristóbal Balenciaga (che sappiamo assai apprezzava il Barocci), rivaleggia con la Natività del Prado e il suo rosa indiano, zabaione e turchino radioattivo.
Quella di Federico Barocci è una lezione pittorica moderna e originale, che accoglie suggestioni in particolare da Correggio, dalla maniera del Parmigianino e dalla temperie veneta. Analizza i successivi raggiungimenti tizianeschi e il colorismo marezzato del Tintoretto su un primo humus raffaellesco desunto dal genius loci. Un incrocio di immaginari che Barocci distilla rendendoli propri, impaginando una rutilante ricerca psichica e una mistica umile ed eroica, ispirata dall’evangelizzazione promossa dalla riforma cattolica nel Concilio tridentino concluso nel 1563.
La poetica di Federico Barocci è affine a noi per l’emozione moderna e diretta che trasmette. Tocca il sublime del sacro con una facilità spiazzante, frutto di una strana ascesi servita dalla tecnica e dall’incessante perfezionamento formale. Ossessione è la password. Nel dipingere si prendeva i suoi tempi. Faceva e disfaceva a proprio talento. Toglieva, scavava e aggiungeva a strati. Velatura su velatura, dettaglio dopo dettaglio. I suoi pentimenti in corso d’opera sono infiniti ed emergono dalla materia pittorica durante il restauro.
Il disegno iniziale è eseguito con esasperazione calligrafica e destrezza di prestigiatore. Figure la cui anatomia minutamente definita viene vestita dal colore con una liturgia di sovrapposizioni e velature. Barocci era conscio del suo valore e contrattava con i committenti fino all’ultimo scudo aureo, esigendolo di peso adeguato. Giovane di grande aspettazione, lo descriveva Giorgio Vasari. Il pontefice Pio IV, dei Medici di Milano, zio di Carlo Borromeo, lo ingaggia per decorare il suo casino in Vaticano tra il 1561 e il 1563.

Federico Barocci disertava il suo appartamento al palazzo di Francesco Maria II della Rovere – non era mai stato un pittore di corte ma molto di più, “uno dello stato”
Ritornato in patria, fragile di salute, dagli anni Settanta svaniva e appariva come una meteora alla corte di Francesco Maria II della Rovere. Gli era stato conferito un appartamento a palazzo che peraltro disertava. Trattava alla pari con il della Rovere preferendo rinchiudersi nel silenzio del suo studio. Il duca non gradiva affatto ma abbozzava mostrando pazienza infinita. Sapeva bene che Barocci era un valore aggiunto nella gestione dei rapporti politici del suo piccolo dominio sullo scenario europeo. Le costrizioni l’artista le rifiutava a priori, ostinato a rispondere solo a se stesso, protetto dallo scudo di una saturnina stravaganza, dall’irascibilità conclamata che usava come arma.
Raffaella Morselli insiste sul fatto che Barocci non sia mai stato un pittore di corte ma molto di più, tanto da essere definito ”uno dello stato”. Il suo impiego, scrive Morselli «potrebbe essere assimilato a quello di un sovrintendente agli affari in materia artistica, passando dagli edifici alle decorazioni, agli oggetti di arti suntuarie, ma i suoi erano piuttosto suggerimenti che incarichi». Più che agiato grazie al conseguimento di una fama europea, temeva di finire i suoi giorni in povertà. Un refrain che ricorre nella sua vita. Sfiancava di richieste, note e cavilli la committenza e, specie in ultimo, faceva attendere sans regrets principi e patrizi, alti prelati e congregazioni, tutti esasperati dalla sua lentezza e acribia nella realizzazione. Un confronto estenuante lo ebbe con la Fraternita dei Laici di Arezzo per la Madonna del Popolo, affollata di figure in brulicante dinamica “appartenenti a tal misterio” e ora agli Uffizi. Frutto di una complessa gestazione più volte interrotta, tra il 1575 e il 1579.
Barocci, torna a Urbino da Roma, ma ha anche viaggiato in tutta italia – la Madonna della Gatta per Vittoria Della Rovere
Barocci – afflitto da mille mali, veri o presunti – si dichiara quasi morto per un avvelenamento ordito da colleghi gelosi nella Roma papale che gli compromette la salute, pur di tornarsene in pace tra le colline natali. Eppure ha anche viaggiato lungo l’Italia, conferma Ambrosini Massari, che parla di soffusione, della tenerezza dei cuccioli umani e animali nella Madonna della Gatta, prediletta dalla bigotta e pingue Vittoria Della Rovere, ultima del suo casato estinto nel 1631 e andata sposa con una dote di capolavori a Ferdinando II del Medici. La Granduchessa la teneva in vista nel suo appartamento d’inverno a Pitti.
Il profilo del palazzo ducale anche qui incarna il legame del pittore con la città natale. Due vedute urbinati, il palazzo e “le casette di Valbona” dai camini fumanti a sera, si miscelano per osmosi nel manto estaticamente dispiegato su un orizzonte in tempesta della Beata Michelina, 1590-1606. La palette è terrosa e ossidata, sfumata di ocra e marrone. Nuances di piombo e di peltro, di cemento e gesso che si sfaccettano nella drammatica fiction della pellegrina francescana.

Altre opere di Federico Barocci
Bisogna spingersi al duomo di Urbino, superata la facciata neoclassica del Valadier, per comprendere la metamorfosi necessaria di Barocci lungo i tornanti della sua esistenza. Tre opere che corrispondo ad altrettanti momenti della sua produzione. Dalla Santa Cecilia e Santi giovanile, evidente omaggio di ventenne al genius loci condensato in Raffaello e riferito all’Estasi di Bologna, fino al moto ellittico e turbinante del monumentale Martirio di San Sebastiano (1557-1588), che reinterpreta quotazioni michelangiolesche e preconizza Rubens. Poi l’Ultima Cena (1592-1599), custodita nello scrigno di stucco bianco-dorato della Cappella del Santissimo Sacramento. Un’opera sofferta e contrastata dove la foschia è sferzata da lampi di un giallo minerale e da verdi e rossi alchemici, specchio di palpitante frequenza emotiva. Iter tormentato quanto la realizzazione del’Istituzione dell’Eucaristia della Cappella Aldobrandini di Santa Maria sopra Minerva a Roma, iniziata nel 1603 e consegnata solo nel 1609, quasi quattro anni dopo la morte di Clemente VIII. Atmosfere e ricerche parallele e distanti dal cammino esagitato di Caravaggio, “fra luce caliginosa e notturna in lontananza”.
Torce e bagliori di candela sferzano drappi e panneggi che si eccitano e fluidificano, il velluto sang-de-boeuf si atomizza mentre, chiudendo i conti con il passato, si palesano memorie della Scuola d’Atene di Raffaello. Quelle sfumature artificiose e proto-moderne evadono dal vincolo del segno come le alchimie pittoriche di Bartholomäus Spranger nella Praga rudolfina. Poco lontano dalla cattedrale si cela il Crocifisso con i dolenti dell’Oratorio della Morte, dove Barocci collabora con la bottega e il seguace Alessandro Vitali in particolare. Eseguito tra 1599 e 1604, lo puoi spiare di notte attraverso il buco della serratura.
Fuga di Enea da Troia firmata e datata 1598 e compiuta per Monsignor Giuliano della Rovere
Gianlorenzo Bernini – il maggiore regista del barocco romano sotto otto pontefici – fu ispirato dalla Fuga di Enea da Troia firmata e datata 1598 e compiuta per Monsignor Giuliano della Rovere, replica autografa dell’opera eseguita più di dieci anni prima per il negromantico imperatore Rodolfo II d’Asburgo. Estrapolato dalla Wunderkammer di Villa Borghese, l’unico soggetto profano dell’artista è godibile in tutta la sua potenza plastica scolpita da inserti di colori preziosi che si stagliano su un tappeto fitto di trofei, armi, rovine e macerie. Ilio brucia nelle tenebre, al cospetto della colonna serliana e del tempietto di Bramante a San Pietro in Montorio, l’Incendio di Borgo di Raffaello quale referenza d’obbligo.
Luigi Gallo, direttore di Palazzo Ducale e co-curatore della mostra
Tornare ad Urbino è un po’ come visitare un amico caro che non si vede di frequente, conclude Luigi Gallo, direttore di Palazzo Ducale e co-curatore della mostra, culmine d’un programma di ripensamento generale dell’istituzione museale. Un’occasione la forniscono gli interventi di ripristino, allestimento e riordino della Galleria Nazionale delle Marche che dirige. Irresistibile il richiamo di questa passeggiata vertiginosa attraverso l’universo di un pittore unico quale Federico Barocci – al tramonto del manierismo e affacciato sul barocco ineunte, egli volle trasporre la natia Urbino nella propria Gerusalemme terrestre e celeste.

Il percorso espositivo della mostra dedicata a Federico Barocci a Urbino
Sei le sezioni del percorso espositivo, organizzato sovrapponendo la successione temporale a una presentazione diacronica che segue le tematiche baroccesche, a partire dal milieu culturale che lo ha prodotto, seguitando attraverso le pale d’altare dai rivoluzionari effetti notturni accesi d’inedite vampe cromatiche, fino all’ambito degli affetti, della natura e delle emozioni dei dipinti più piccoli destinati alla devozione privata. La quarta sala è dedicata alla grafica e rivela disegni, cartoni e incisioni, mentre nella quinta le composizioni saranno visibili dalla fase preparatoria all’opera finita. Il sesto ambito, dal titolo Senza limite confini, verte sull’ultimo periodo di attività di Barocci, presentando dipinti che risalgono al primo decennio del Diciassettesimo secolo.

Cesare Cunaccia