Venezia

Che cos’è un Cultural Brand? Definizione ed Esempi

La definizione di Cultural Brand: un marchio che produce narrazioni autoriali associabili al prodotto commerciale. Tra i primi esempi: Louis Vuitton e Rolex

Cultural Brand: definizione e significato: autorialità, impegno finanziario, brand equity

La definizione precisa e tecnica di brand culturale potrebbe essere la seguente: un brand che riconosce l’autorialità di un racconto, la sostiene finanziariamente, e che tramite tale racconto riesce ad aumentare il valore finanziario della propria brand equity ed eventualmente a presentare il proprio prodotto commerciale. 

L’autorialità

Entrando nel dettaglio: in prima istanza: il brand deve riconoscere l’autorialità di un racconto e rispettarla, deve proteggerne la libertà espressiva di questa autorialità e aumentarne la diffusione. Questo significa che il brand culturale non suggerisce a un autore come evolvere la sua espressione, chiedendogli di atterrare in un ambito vicino a un approccio commerciale o promozionale. 

L’impegno finanziario

Il brand culturale sostiene l’autorialità e la sua espressione con un impegno finanziario. L’operazione si potrebbe chiamare sponsorizzazione, ma il termine è superato. L’operazione è più simile al mecenatismo – ma il mecenatismo, storicamente, può restare anonimo. Il brand culturale non deve restare anonimo, perché la sua attività di branding deve essere evidente. Il brand culturale deve dichiarare come sia proprio l’impegno finanziario allocato a rinforzare una libertà espressiva autoriale. L’autore deve dichiararsi più potente nella sua libertà sia grazie alle risorse economiche fornite dal brand culturale, sia grazie alla sintonia con le operazioni del brand culturale.

Brand Equity

Un brand culturale lavora in prima istanza sulla brand equity, che del brand può essere intesa la struttura portante, come lo scheletro per un corpo umano. La brand equity è il coefficiente numerico per il quale – a esempio – un posacenere di Gucci costa 4 volte quello che può costare un altro posacenere della medesima, fine, porcellana. La brand equity è individuabile in un numero, variabile e relativo, ma sempre un numero. La brand equity si costruisce e si evolve con elencabili strategie: la prima tra queste è l’opposto di ogni strategia, ovvero il tempo. 

In sintesi: un brand culturale è quel brand che sostiene finanziariamente espressioni culturali, editoriali, autoriali al fine di aumentare il proprio coefficiente di conversione economica, appunto, la brand equity.

Un brand culturale: solo brand storici o anche brand emergenti? Il settore del lusso

Da quanto sopra, potrebbe essere logico dedurre che soltanto un brand storico, ricco di tradizione decennale, di esperienze e successi, potente finanziariamente, posso assurgere alla definizione di Brand Culturale. Sì, in linea di massima è così. Non soltanto: un Brand Culturale è quasi sempre un Brand che si può definire proprio al settore del lusso. Perché? Perché si può tecnicamente definire “brand di lusso” o “luxury brand” quel brand la cui brand equity è alta. 

Brand Culturale: esempi e citazioni

Louis Vuitton e il Louvre

Citiamo alcuni esempi. Louis Vuitton è il primo brand di fatturato del gruppo LVMH, a sua volta il primo gruppo per fatturato del mondo del lusso. Se Louis Vuitton corresse da solo, i suoi numeri finanziari sarebbero messi in sfida da quelli di Chanel – entrambi toccando quasi i 20 miliardi di euro di fatturato. Se si considera il gruppo, LVMH ha appena comunicato un valore annuale di oltre 80 miliardi di euro. Louis Vuitton è il brand ammiraglio di LVMH: a capo di Louis Vuitton è Pietro Beccari, carriera esecutiva che cominciava oltre vent’anni fa nei dipartimenti di marketing e comunicazione.

Pietro Beccari, nelle sue interviste, presenta Vuitton come Brand Culturale: a sostegno di questo Pietro Beccari può citare la collaborazione con gli artisti visivi sui propri prodotti, da Yayoi Kusama a Murakami – questa seconda rilanciata proprio all’inizio di questo anno; in ambito sportivo, l’impegno nella Vela del 2024 e il patronage alle gare di Formula Uno – oltre a tutte le attività della Fondazione, a Parigi come a Venezia. Per trovare una più precisa definizione di Brand Culturale per Louis Vuitton – secondo quanto sopra – bisogna dare l’esempio del sostegno al Museo del Louvre, tanto da poter usare il cortile centrale del palazzo quale location per le sfilate e da poter allestire una tavola da pranzo nella sala della Gioconda. 

Rolex e il programma Mentor and Protégé

Il secondo esempio è Rolex: con un piano di patronage che, solo in Italia, copre la Biennale d’Architettura di Venezia e la Scala di Milano; il programma di Mentor and Protégé porta sostegno concreto ai talenti di ogni mestiere e arte nel mondo, accompagnandoli in una conversazione con un mentore che da soli non avrebbero potuto raggiungere. La campagna Perpetual per il Pianeta e il sostegno economico alle imprese degli esploratori. Lo sport, il tennis: i campioni, da Sinner ad Alcatraz, le loro vittorie sono celebrate con manifesti urbani. In queste operazioni di branding, il prodotto – l’orologio – non sempre è mostrato. Il brand non ne ha bisogno. La proprietà di Rolex è una fondazione benefica.

Cartier e la Mostra di Venezia

Ancora: Cartier, sponsor della Mostra del Cinema di Venezia e di un pannello culturale complementare: dagli incontri con Damien Chazelle e Justin Hurwitz a una retrospettiva su Jean Cocteau; sponsor del Shanghai Museum, del Victoria & Albert a Londra, di Palazzo Altemps a Roma – in questi casi, con mostre retrospettive sulla propria storia commerciale che diventano contesti per altre espressione autoriali; la Fondation Cartier della Triennale di Milano.

Altri casi: Saint Laurent, Prada, Jacquemus

Saint Laurent ha dato vita a è una controllata casa di produzione cinematografica: un’iniziativa che genera finanza per l’arte cinematografica – cortometraggi di Bret Easton Ellis e di Pedro Almodovar; lungo metraggi come Parthenope di Paolo Sorrentino; un’azienda che produce film, espressioni creative, il cui risultato può dare forte ritorno economico: Emilia Perez con 13 nomination agli Oscar. 

Prada è forse la prima casa che ha saputo usare la cultura per formare il valore della sua Brand Equity in decenni di comunicazione – ma si è quasi sempre trattato di operazioni vestite di cultura, non rivolte alla cultura. L’effetto è stato concreto, ma si tratta di brand reputation – non di brand culturale. La Fondazione lavora a Milano e a Venezia presentando mostre e rassegne che eccitano l’agenda culturale cittadina – ma il brand non si rivolge a espressioni autonome. 

Cultural Brand e Celebrity: lo stereotipo che annienta il tentativo: Jacquemus

Entrando nel sito di Jacquemus, cliccando sulla pagina about, Jacquemus si presenta come brand culturale: a dimostrazione della tesi, si elencano e si ricordano le location delle sfilate – tra queste, a giugno 2024, la Villa Malaparte di Capri. Forse non basta, una location con una storia, per scrivere una storia. A queste sfilate, in passerella come in platea, siedono volti con nomi che non rappresentano un brand culturale.

Oggi, gran parte di un budget di comunicazione che i Brand usano per alzare il valore di Brand Equity e raggiungere la dimensione di Cultural Brand è impiegato per pagare il gettone di presenza a celebrity sedute in prima fila. Il tentativo non porta al risultato. Non serve entrare nel metodo della bontà di tali operazioni: qui voglio solo ricordare che vale per tutti noi: i nostri amici ci definiscono. Se un Brand accoglie celebrità televisive o digitali il cui è messaggio è l’attenzione al mostrarsi piacenti la mattina come la sera, e l’adesione a quello stereotipo secondo il quale un volto femminile ha bisogno dell’intervento chirurgico per sopportare gli anni della saggezza, il Brand stesso diventa catalizzatore di pochezza. Anche se tutto avviene in una scenografia progettata da Adalberto Libera.

La cultura è la sostenibilità

Troppo facile, si potrebbe dire, leggendo fino a qui? Proviamo ad alzare l’asticella e tornare alle definizioni di partenza. Scrivevo che un Brand Culturale sostiene un’espressione talentuosa nella sua indipendenza; scrivevo che l’autore di un’opera intellettuale quando sostenuto da un brand culturale, dovrebbe sentirsi in sintonia con ogni operazione del brand. 

La cultura oggi è la sostenibilità. La cultura non esiste dove c’è la plastica. I Brand Culturali si guardino la pancia – o meglio, si scavino nel cuore: entrare nelle viscere della propria manifattura. I Brand Culturali dovranno sapere ammettere il controsenso del consumismo che rappresentano, a ragione del quale l’industria tessile continua a usare poliestere e produrre microplastiche.

La sostenibilità è un compromesso – è vero – ma per cominciare, il messaggio è utile. Il messaggio deve essere un messaggio positivo. Cosa significa positivo? È un termine generico. Tutte i tre termini sono generici: cultura, sostenibilità, positività. Rimane che oggi è inutile crogiolarsi nella nostra storia, nella nostra tradizione, nell’arte e nella bellezza, se lo sforzo non porta a una visione pragmatica di futuro. Cultura, sostenibilità, positività – aggiungiamo, futuro. Ancora, tutto vago, tutto generico. Provate a respirare: chiediamoci se ogni gesto che facciamo, ogni oggetto che compriamo, ogni giornata che viviamo, riesca rispettare questi termini, sì, generici. Cultura, sostenibilità, positività. Siamo solo gocce d’acqua pulita: insieme, siamo un oceano.

Carlo Mazzoni