La plastica nei suoli agricoli supera quella negli oceani: l’urbanista Paolo Pileri interviene su microplastiche e agrivoltaico, la perdita di biodiversità e l’emissione di gas clima alteranti
La plastica non è solo nei mari ma anche nei suoli
Oltre trecento milioni sono le tonnellate di plastica che produciamo all’anno, l’equivalente del peso di tutti gli abitanti del pianeta. Altrettante tonnellate diventano rifiuti, in parte smaltiti tramite pattumiere autorizzate e in parte dispersi a terra e in mare, dove si stima che ne arrivi circa il dieci percento. Le più insidiose sono le microplastiche, frutto della frantumazione di frammenti più grandi a seguito dell’esposizione prolungata ai raggi ultravioletti. Queste misurano meno di cinque millimetri e possono a loro volta disgregarsi in nanoplastiche, particelle ancora più piccole.
Siamo sempre più abituati a vedere immagini di isole di plastica e animali marini uccisi dai rifiuti, ma questa situazione non interessa solo gli oceani: «La quantità di plastica nei suoli è ancora più alta» spiega Paolo Pileri, docente di urbanistica del Politecnico di Milano e autore del libro Dalla parte del suolo. L’ecosistema invisibile (Editori Laterza). «Si tratta di un tema scientifico su cui vi sono ancora pochi studi, perché è più complicato andare a catturare la micro e nano plastiche nei suoli. Tuttavia, sono state eseguite delle campionature su alcuni terreni agricoli, dalle quali si evince che nel suolo potrebbe annidarsi il doppio della plastica dispersa negli oceani. Un dato tanto più inquietante se si considera che i mari coprono i tre quarti del pianeta e che le superfici agricole corrispondono a molto meno del restante quarto di terre emerse».
L’agricoltura tradizionale è plastica-dipendente
Non è un caso che le campionature per misurare i livelli di micro e nanoplastiche nei suoli siano state eseguite proprio su terreni agricoli: «L’agricoltura tradizionale da trent’anni fa largo uso di plastica per molti processi produttivi. Si stima che un ettaro di suolo agricolo, in Italia e in Europa, sia attraversato ogni anno da quattro tonnellate di plastica. È inevitabile che ne rimangano dei frammenti, vuoi per errore, vuoi per imperizia. Per esempio, la pacciamatura intensiva consiste nel coprire i suoli con teli di plastica, che a volte non vengono rimossi interamente o addirittura vengono trinciati».
Di plastica sono anche i fili che si usano per legare le colture arboree, i teli delle serre, i sacchi per fertilizzante, le tubature d’irrigazione, i teli a protezione dalle grandini, i contenitori alveolari per talee, le reti e i film per avvolgere le balle di fieno, le cassette per la raccolta della frutta, i bunker per il ricovero di mezzi e fieno, le targhette identificative deli animali… Plastica di ogni tipologia: polietilene, polipropilene, poliesteri, polistireni, nylon: «Perfino alcuni fertilizzanti contengono componenti plastiche». Di recente sono apparsi anche polimeri biodegradabili – come PCS e PCL – ma ci impiegano anni.
Il Politecnico di Milano sta al momento effettuando degli studi, nell’ambito di una tesi di laurea, per capire se sia possibile riconoscere i frammenti nei suoli ed eventualmente stillare una sorta di registro di utilizzo delle plastiche in ambito agricolo: «Insieme agli studenti stiamo utilizzando dei droni per sondare lo spettro di risposta energetica che possono avere le plastiche quando ci passiamo sopra con un telerilevatore. Questo ci aiuterà a capire se ci sono dei sistemi di riconoscimento rapido».
L’impatto dell’agricoltura tradizionale sui suoli
Nel 2021 la FAO ha stillato un rapporto, Assessment of Agricoltural Plastics and Their Sustainability, nel quale avverte che in Europa l’agricoltura usa almeno 1,74 milioni di tonnellate all’anno, 372.000 delle quali in Italia. Studi dimostrano che le microplastiche così disperse nei suoli ne alterano la composizione batterica, degradandone l’equilibrio. Inoltre, penetrano nelle colture: «Alcune plastiche sono talmente nano che vengono trovate nei sistemi linfatici dell’insalata». Questo si ripercuote sulla salute del consumatore: «Ad oggi sappiamo che alcune plastiche sono cancerogene, mentre altre possono agire sul sistema neurologico. È importante continuare a confrontarsi con la medicina per studiare gli effetti dell’accumulo di plastica nel corpo».
A ingerire frammenti plastici possono essere anche gli animali. Nel suo libro il professor Pileri riporta l’esempio dei maiali, che spesso mangiano plastiche presenti nella loro lettiera, residuo dei fili con cui si legano le balle di fieno, che non sempre vengono rimossi. La plastica che non viene ingerita dai maiali finisce per essere macinata insieme alla lettiera avanzata, mescolata ai liquami e poi dispersa sui campi, penetrando ancora più profondamente e velocemente nel suolo.
L’impatto dell’agricoltura tradizionale sui suoli non si esaurisce alla dispersione di micro e nanoplastiche: «Li compatta, riducendone la permeabilità e i flussi idrici interni; fa uso di pesticidi e funghicidi che li inquinano e ne danneggiano la biodiversità (che corrisponde al trenta percento di tutta la biodiversità del pianeta); modifica i paesaggi vegetali e finisce per sterilizzare i terreni stessi. C’è poi il tema della zootecnia: gran parte dei liquami prodotti dagli animali viene dispersa nei campi, pratica che favorisce un accumulo di azoto nel suolo superiore a quello che è in grado di elaborare. Questo ritorna nell’atmosfera sotto forma di un gas molto più pesante e problematico del carbonio. L’agricoltura porta, dunque, i suoli a invertire la loro funzione, che è normalmente quella di stoccare gas clima alteranti».

L’impatto poco green delle rinnovabili sul suolo
Un impatto negativo sui suoli, in termini sia di inquinamento sia di degrado, ce l’hanno anche le energie rinnovabili. Sebbene, infatti, si tratti di un settore ufficialmente green, le attuali infrastrutture e il modo con cui vengono gestite risultano spesso poco sostenibili dal punto di vista sia ambientale sia sociale: «Oggi le rinnovabili per poter esistere hanno bisogno di terreni, che sono utilizzati dagli agricoltori o fanno parte di un paesaggio cui è legata una comunità, col rischio di generare innanzitutto ingiustizie e conflitti sociali. Bisogna pensare a un meccanismo di accompagnamento sociale e di ridistribuzione dei vantaggi. C’è poi un problema di opportunità, perché i suoli servono in primis alla natura e in seconda battuta per produrre cibo. Dovrebbero, dunque, essere l’ultima risorsa cui ricorrere per scopi energetici».
I pannelli fotovoltaici, per esempio, sono stati presentati come soluzione a zero impatto ambientale per la transizione energetica, quando a farne le spese è proprio il suolo: «I normali processi naturali – come ore di luce e ciclo dell’acqua – vengono ostacolati. Cessa così la produzione di cibo e si danneggia l’ecosistema. Discorso analogo si può applicare agli interventi necessari per installare le pale eoliche». Una sperimentazione condotta sui parchi solari in Francia ha evidenziato che il suolo tende qui a degradare di più e con maggiore rapidità rispetto a terreni sottoposti a colture di qualità. Gli studi di Lambert hanno anche dimostrato che la rimozione delle piante che si rivela necessaria in fase di installazione dei pannelli porta il suolo a frantumarsi e perdere potere colloidale. Si genera, così, un impatto negativo sulla funzionalità delle piante e si riduce la biodiversità. I suoli ombreggiati dai pannelli sono poi soggetti a una riduzione della temperatura di giorno e a un suo aumento di notte: l’escursione termica diviene più alta del normale.
Agendo da tettoie, i pannelli riducono anche l’umidità e inficiano la fertilità dei suoli. Test condotti a Montalto di Castro, nel Lazio, hanno evidenziato che in sette anni la componente organica al di sotto dei pannelli si è ridotta del sessantuno percento e l’azoto totale del cinquantuno percento. Tutto ciò ostacola la capacità del suolo di stoccare carbonio e dunque di regolare il clima.
Impegno umano: non agrivoltaico ma sfruttare le aree già cementificate
Per arginare l’impatto del fotovoltaico sui suoli è stato ideato l’agrivoltaico, che consiste nel montare i pannelli a un’altezza e a una densità tali da consentire la coltivazione sul terreno sottostante. Per il professor Pileri, però, non è una soluzione: «Si tratta di un sistema deciso a tavolino senza interpellare gli agricoltori. Facendolo, si scopre che è estremamente costoso e per nulla funzionale».
Per raggiungere i quindici gigawatt di potenza fissati come obiettivo per le rinnovabili da PNRR e PNIEC potrebbero essere necessarie superfici tra i quindici e i trentamila ettari: quattro volte il consumo di suolo medio annuo italiano finora. Con l’agrivoltaico diventerebbero sessantamila. E che la pannellizzazione a terra sia da considerarsi effettivamente consumo di suolo, per quanto reversibile, lo hanno sancito sia l’ISPRA sia la proposta di Direttiva Europea per il monitoraggio dei suoli del 2023.
Il professor Pileri ritiene che per coniugare la transizione energetica con la salvaguardia del suolo sia necessario un impegno umano volto a sfruttare i luoghi già cementificati: «Bisogna partire dalle superfici che sono già degradate e impermeabilizzate, come tetti, magazzini, capannoni, binari ferroviari, parcheggi… Tuttavia, la politica ha deciso di puntare sulle grandi distese per rendere la partita della transizione energetica più attrattiva per i grandi investitori a caccia di profitto».
Paolo Pileri
Paolo Pileri insegna Usi del suolo ed effetti ambientali al Politecnico di Milano. Si occupa di suolo e del suo consumo, ma anche di pianificare linee lente ciclabili e camminabili. È membro del comitato scientifico del rapporto nazionale sul consumo di suolo di ISPRA e ideatore del progetto VENTO, la dorsale cicloturistica tra Venezia e Torino. È autore di diversi libri: 100 parole per salvare il suolo; Progettare la lentezza; L’intelligenza del suolo; Piazze scolastiche; Urbanistica fragile; Dalla parte del suolo. L’ecosistema invisibile.