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La riapertura del Garage Traversi: intervista a Piero Lissoni

Dopo anni di restauro riapre il Garage Traversi con Audemars Piguet: terrazze a sbalzo, salotti e galleria, la nuova AP House Milano e gli interni disegnati da Piero Lissoni

La nuova Audemars Piguet House a Milano. Il progetto interior di Lissoni & Partners

Audemars Piguet apre la sua AP House Milano al Garage Traversi, all’inizio di via Bagutta, e si aggiunge alle diciannove location esistenti, tra cui Amsterdam, Bangkok, Barcellona, Hong Kong, Londra, Los Angeles, Madrid, Monaco, New York, Shanghai, Tel Aviv, Tokyo e Zurigo. Il progetto di interior è stato affidato a Lissoni & Partners e si articola su più piani, per una superficie di oltre 1.600 metri quadrati.

«La scala architettonica dell’edificio ha stabilito il pentagramma del progetto e Audemars Piguet mi ha dato l’alfabeto attraverso cui avrei dovuto progettare una specie di casa», inizia a raccontare Piero Lissoni. «Non vi si trovano solo orologi. È allo stesso tempo un club, un luogo di incontro depositario di cultura, libri, cibo. La nuova Audemars Piguet House è a Milano e mi è stato chiesto un progetto milanese, che abbia la consistenza di uno spazio nato in questa città. Il progetto è quindi il risultato di un incrocio multistrato che passa da Piero Portaluppi, Ettore Sottsass, Anna Castelli Ferrieri, Luigi Caccia Dominioni, Achille Castiglioni. Il codice è Milano».

Il Garage Traversi

Il Garage Traversi fu il primo parcheggio multipiano della città, operativo dal 1939 al 2003. Innovativo per l’epoca, fu progettato dall’architetto Giuseppe De Min e Alessandro Rimini come parte del più ampio progetto di sviluppo urbano di Piazza San Babila. L’edificio in stile razionalista, caratterizzato da facciate curve e da finestre con struttura in acciaio, fu considerato un esempio di innovazione architettonica grazie al suo sistema di ascensori per auto. 

Per il progetto di interni, lo studio Lissoni & Partners si è ispirato all’ambiente naturale della Vallée de Joux, sede di Audemars Piguet, incorporando nel design materiali diversi come il legno, il vetro e il metallo e dando allo spazio un tocco milanese. Ognuno dei cinque piani coniuga i codici estetici del brand con il patrimonio di design di Milano. Al piano terra, un pattern modernista richiama il motivo guilloché della Petite Tapisserie del marchio, che fece il suo debutto con il lancio del Royal Oak nel 1972. Giocando su texture, contrasti e luce, la hall d’ingresso associa un pannello di vetro laterale che offre illusioni ottiche con una parete in ebano massiccio che ricorda le ville storiche milanesi del Novecento.

Nel piano espositivo degli orologi si affiancano a quelli storici, tra mobili e design realizzati da Osvaldo Borsani, Franco Albini, Ettore Sottsass, Vico Magistretti e Achille Castiglioni. 

Coniugare il funzionale con il bello

A partire circa dal Settecento, il dibattito sul come coniugare il funzionale con il bello ha continuato ad alimentarsi fino ad oggi. Nella Venezia del XVIII secolo, pare che Carlo Lodoli avesse elaborato una sorta di motto per i suoi allievi: ciò che mi è utile e bello, concorre alla mia felicità. Oggi come avviene l’incontro tra valore estetico e il principio di comfort? L’armonia tra funzione e forma secondo Piero Lissoni. 

«I concetti di comfort, funzione e bellezza sono stati scissi tra loro in tempi recenti – soprattutto alcuni tedeschi piuttosto calvinisti, dopo il Bauhaus, insistono sul principio per cui la forma debba avere una funzione e viceversa. Il mio pensiero è sempre stato un po’ più libero attorno a questo tema. Il Bauhaus lavora attorno all’idea di forma funzionale. Sono legato all’idea per cui la bellezza, intesa come capacità formale di esprimere un linguaggio, porti automaticamente a rivelare la sua funzione. Secondo la vulgata classica non necessariamente possiamo decidere di essere confortevoli e non necessariamente dobbiamo rinunciare alla bellezza del linguaggio. Preferisco piegare la funzione alla bellezza. Faccio una scelta più borghese, meno rivoluzionaria. Rimango dell’idea che la funzionalità abiti nella bellezza. Non ho mai visto oggetti o edifici belli che non fossero anche funzionali». 

Il futuro dell’architettura e del design tra intelligenze artificiali e il primato delle mani umane

Le capacità dell’intelligenza artificiale ingloberanno il futuro dell’architettura e del design? Il primato sensibile del disegno manuale resterà un baluardo inespugnabile al progresso tecnologico? Per dirla alla Eco, che applicava questa nozione ai media di massa, ci si domanda se Piero Lissoni sia un apocalittico o integrato digitale. 

«Sono un primate digitale, lo uso come una specie di cacciavite. Per quanto lo Studio utilizzi computer e suoi derivati, io non ci intrattengo un rapporto cordiale. Sono un primate e me ne vanto. Disegno su carta. A volte uso il tablet solo per comodità: una penna specifica su una superficie liquida. Mi piacerebbe tornare a un’idea umanistica di creazione. Gli architetti progettano secondo una scala umana. Quest’ultima ti permette di conoscere, dibattere e studiare a fondo il progetto. Non ho paura dell’intelligenza artificiale. È con noi da tempo. Ad esempio, quando usiamo i software così detti parametrici, il computer rimodella tutto l’elemento in questione per applicare le modifiche che vogliamo attuare. Ma l’intelligenza artificiale resta strumento. Il pericolo sta nel visualizzarla come fine e non mezzo. Vedo spesso progetti imbellettati da sistemi di disegno. Perfetti ma scevri di ogni qualità progettuale. Il dibattito attuale è più commerciale che altro. Preferisco essere un apocalittico. So che l’integrazione avverrà. Bisogna essere uno scienziato anche un umanista. Un po’ anarchico». 

Fenomenologia dell’architetto. Un lavoratore o un fuoriclasse da spettacolarizzare? 

Il termine archistar è ormai neologismo riconosciuto anche dall’Enciclopedia Italiana. Su un piano sociologico, si assiste alla mitizzazione della figura dell’architetto all’interno della società dello spettacolo, come già la intendeva Guy Debord. La sfera professionale combacia sempre più a quella privata. C’è chi si impegna al massimo per essere definito tale e chi fa di tutto per sfuggire a questo “marchio”. 

«Trovo la parola offensiva. Quando vengo definito archistar sorrido acconsentendo a un briciolo di ironia ma la trovo una definizione non gradevole. Io faccio un mestiere. Sono artigiano del mio mestiere. Un paradigma a cui mi sento di appartenere. Alcuni giornalisti hanno applicato questa variante rock ’n’ roll agli architetti e alcuni colleghi hanno cavalcato l’onda. Ognuno sceglie come comunicare. Non mi sento una star ma un architetto. È un mestiere che permette di studiare, approfondire, allontanarti. Chi ha un approccio serio al lavoro, rifugge da questa definizione». 

Il primato va agli interlocutori. L’architetto? Una figura secondaria

«Ernesto Nathan Rogers nel primo numero di Casabella scrive che per poter essere architetto è necessario saper gestire la scala delle proporzioni. Essere in grado di passare da progettare un cucchiaio a una città. Il mio progetto passa da qui e tiene conto della regola aurea. Abbiamo bisogno di prendere le misure per lavorare con la mente aperta. L’artista – idealmente –  può aprire e chiudere il cerchio con se stesso. L’architetto necessita di un interlocutore. Senza questa figura non esistono progetti valevoli. Io sono una figura secondaria. Ho bisogno dell’interlocutore, di limiti, di punti di discussione intellettuali, estetici, formali ed economici». 

Federico Jonathan Cusin

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