Il sogno americano arrugginito è al centro di narrazioni in letteratura: lontano dai fasti delle grandi città e dai capricci californiani c’è l’America dimenticata dal turismo, dall’impresa, e dagli stessi americani
J. D. Vance: il “veep weirdo” che ce l’ha con le gattare
Il termine inglese “weird” si potrebbe tradurre in: strano, strambo, fuoriluogo. In un’accezione più negativa: preoccupante, ridicolo. Viscido, inquietante. Alcuni esponenti del Partito Democratico utilizzavano “weird” per riferirsi a Donald Trump – oggi eletto presidente degli Stati Uniti –, a J. D. Vance – vicepresidente –, e a molte delle idee sostenute dal MAGA, la corrente più conservatrice all’interno del partito destrorso. Il termine è comparso persino sul profilo X del comitato elettorale di Kamala Harris, Kamala HQ, ed è stato poi utilizzato dalla stessa Harris, durante un evento di raccolta fondi in Massachusetts. Harris ha detto che le voci diffuse da Trump e i suoi sostenitori sul suo conto – in riferimento alla sua indulgenza con i criminali e l’incapacità di gestire l’immigrazione irregolare – sono “plain weird”, davvero strane.
Il vicepresidente J. D. Vance negli ultimi mesi è stato protagonista di meme e contenuti online che lo prendevano in giro per un episodio (rivelatosi poi inventato) secondo cui avrebbe avuto un rapporto sessuale con un divano. Più di recente è stato colpito da critiche – come l’intervento dell’attrice Jennifer Aniston – a seguito di alcune sue dichiarazioni, rilasciate in un’intervista a Fox News nel 2021 mentre era candidato al Senato in Ohio, riguardo donne esponenti del Partito Democratico, descritte da Vance come:
«Un gruppo di gattare senza figli che non sono soddisfatte della propria vita e delle scelte che hanno fatto, e vogliono rendere il resto del paese ugualmente infelice». In quell’occasione, Vance ha citato esplicitamente Kamala Harris, che non ha figli ma è matrigna dei due figli che il marito ha avuto dalla precedente compagna. Interrogato a riguardo al Megyn Kelly Show, Vance disse: «Era un commento sarcastico. La gente si sta concentrando così tanto sul sarcasmo e non sulla sostanza di ciò che ho effettivamente detto. […] Si tratta di criticare il Partito Democratico per essere diventato anti-famiglia e anti-bambini». Sulla questione è infine intervenuto Trump dicendo ai microfoni di Fox News che Vance cercava soltanto di veicolare i valori familiari a cui è strettamente legato e che restano per lui di primaria importanza.
Da convinto anti-trumpista a fiero candidato alla vicepresidenza: l’Elegia Americana di J. D. Vance
James David Vance nasce e cresce a Middletown, in Ohio, presta servizio nei Marine in Iraq e si laurea alla Yale Law School. Ex manager, nel 2023 è eletto Senatore degli Stati Uniti per l’Ohio. Nel 2016, pochi mesi prima dell’elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, pubblica l’autobiografia Hillibilly Elegy (in Italia: Elegia Americana, ed. Rizzoli) che riscuote fin da subito successo di critica e di pubblico, soprattutto per il racconto che fa dell’America più disperata, la stessa che decreterà da lì a poco la vittoria di Trump. Al tempo, Vance era un Repubblicano moderato, esponente convinto del movimento “Never Trump”, molto critico nei confronti del Presidente.
In un’intervista dello stesso anno affermava di non aver votato per Trump, che non gli era mai piaciuto, e in un tweet del mese d’ottobre, poco prima dell’elezioni, scriveva: “Mio Dio che idiota” riferendosi sempre a Trump. Sull’Atlantic lo definiva «la droga del Paese» e nel privato della sua pagina Facebook arrivava a paragonarlo a Hitler. Poi, cambia idea. Cancella ogni tweet e tutti i post anti-Trump dai social, comincia a elogiare il Presidente fino a diventarne il più efficace portavoce in tv e a Capitol Hill. E ora, la vicepresidenza del nuovo governo Trump.

Hillibilly Elegy, il memoir best-seller che racconta il nuovo sogno americano
«Sono cresciuto in una piccola città dell’Ohio […] uno di quei posti accantonati e dimenticati dalla classe dirigente di Washington» ha raccontato Vance durante la terza giornata della convention del Partito Repubblicano, certo di far leva sugli interessi dell’elettorato di Trump: i grandi valori familiari, la repressione di ogni istanza simbolo di progresso e modernità (aborto, transizione, fluidità, fino all’addio alle amate armi), il ritorno a una comunità sempre fiera di sé, del suo operato, del suo credo, del suo isolazionismo. Il ritorno a un’America ancora più bianca e più arrabbiata.
Questa è la forma del nuovo sogno americano, raccontata nel memoir di Vance, Hillibilly Elegy. Racconto intransigente della “white trash”, la popolazione bianca e povera composta dagli ex-lavoratori del ferro della Rust Belt, e saga familiare, dominata dalla nonna di Vance, la dura Mamaw «che amava Dio, la parola fuck e possedeva 19 pistole», con cui il ragazzo è cresciuto, figlio di una madre eroinomane e di un padre assente. Il libro vendette un milione e mezzo di copie (ora, dopo la nomina di Vance alla vicepresidenza è di nuovo in cima alle classifiche di mezzo mondo), nel 2020 Ron Howard ne ha tratto un film per Netflix con Glenn Close (nei pianni di Mamaw) e Amy Adams (madre di Vance), stroncato al tempo dalla critica, ora tra i film più visti della piattaforma.
Vance era, al tempo, il conservatore più letto e apprezzato dall’élite costiere traumatizzate dalla sconfitta di Hillary Clinton e in cerca di una risposta: chi sono gli americani che hanno veramente votato per Trump? Lo mette in chiaro Vance, nelle prime pagine della sua elegia. «I loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e infine, in tempi più recenti, meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillibilly, redneck o white trash. Io li chiamo vicini di casa, amici e familiari».
Presidenziali 2016, gli hillibilly della Rust Belt che hanno creduto in Trump
Buzzurri, montanari, colli rossi, spazzatura bianca. Intraducibile in italiano, con il termine “hillibilly” si fa riferimento a quella classe operaia bianca falcidiata dalla disoccupazione e dall’epidemia da oppiacei, le persone che abitano le zone rurali e di montagna – gli Appalachi, Kentucky, West Virginia, Ohio. In passato erano immigrati scozzesi e irlandesi padroni di niente, ora sono i disoccupati, ex-operai di industrie chiuse per la decolonizzazione, la globalizzazione, l’automatizzazione, ed ex-minatori di miniere di carbone dimenticate, simbolo della Rust Belt, la regione compresa tra i Monti Appalachi e i Grandi Laghi, un tempo cuore dell’industria pesante statunitense, oggi segnata dal declino economico, lo spopolamento e il decadimento urbano.
A partire dagli anni Ottanta, i candidati alla presidenza hanno posto una particolare attenzione alle problematiche economiche della Rust Belt, che comprende molti degli swing states (gli stati in bilico, in cui non c’è la sicurezza di una vittoria a priori, data da un sostegno storico, di democratici o repubblicani, vero e proprio campo di battaglia per i candidati) – Pennsylvania, Michigan, un tempo l’Ohio, ora sempre più Repubblicano. Stati decisivi per la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali del 2016, quando vinse in tutti i territori della Rust Belt, eccetto l’Illinois, rovesciando il risultato ottenuto nel 2012 da Barack Obama.
Barbara Kingsover all’Appalachia, dov’è nata e ora vive, ha dedicato il suo ultimo romanzo, Demon Copperhead (ed. Neri Pozza), vincitore del Premio Pulitzer
«Siamo l’ultima classe di persone di cui le persone progressiste si prendono gioco. Molti di noi riconoscono il razzismo strutturale, il razzismo istituzionale. Ma il classismo strutturale semplicemente non viene discusso perché l’America è la società senza classi. E ci abbiamo creduto sul serio. […] Elegia Americana è stato abbracciato dal resto dell’America perché odiano gli hillbillies» sostiene la scrittrice Barbara Kingsover che all’Appalachia, dov’è nata e ora vive, ha dedicato il suo ultimo romanzo, Demon Copperhead (ed. Neri Pozza), vincitore del Premio Pulitzer, il Women’s Prize of Fiction e il James Tait Black Memorial Prize. Straziante racconto di formazione dagli echi dickensiani che illumina l’ignoranza, la povertà, la carenza d’istruzione e d’assistenza sanitaria del Midwest americano, ponendo particolare attenzione alle pericolose strategie delle case farmaceutiche e la strage silenziosa compiuta dalla dipendenza di oppiacei.

Ruggine Americana di Philip Meyer racconta di un sogno americano sempre più arrugginito
Questo sogno americano sempre più arrugginito, dimesso, straziato, si ritrova al centro di diverse narrazioni, lontane dai fasti delle grandi città e dai capricciosi lamenti californiani, e capaci, per questo, di far luce su un’America dimenticata dal turismo, dall’impresa, e pure dagli americani stessi. Un’America che ripete la sua fine ogni giorno, nei sogni infranti dei suoi abitanti, come racconta Philip Meyer in Ruggine Americana (ed. Einaudi). Meyer, nato e cresciuto nel Maryland, ha lasciato la scuola a sedici anni, ha lavorato come meccanico di biciclette e a diciannove ha deciso di diventare uno scrittore, ha frequentato la Cornell University e ha esordito nel 2009 con Ruggine Americana. Un altro romanzo di formazione, un’altra famiglia a pezzi (qui, la madre del protagonista muore suicida e lui cerca di imitarla) e un altro tentativo di fuga da quei territori fatti di acciaierie dimesse, fabbriche chiusi e sogni infranti.

Jordan Farmer Un diluvio di veleno (Jimez Edizioni) – le disavventure dell’ultimo dei figli di una terra devastata dalla povertà
Spostandoci a sud si trova la West Virginia di Jordan Farmer, sfondo del suo Un diluvio di veleno (Jimez Edizioni) Tornano le disavventure dell’ultimo dei figli di una terra devastata dalla povertà e da una fuga di sostanze tossiche che avvelena le acque locali. Qui, il protagonista è deformato da una spina dorsale ricurva, suo padre era un predicatore delle colline della regione ed è ossessionato dalla musica. Ad arricchire la storia, omicidi, fanatici religiosi, e la speranza, forse vana, forse inscalfibile, di un domani diverso, migliore, di un’altra America.

I dodici racconti di Breece D’J Pancake, Trilobiti (ed. Minimum Fax)
Nelle stesse colline si muovono i protagonisti dei dodici racconti di Breece D’J Pancake, raccolti in Trilobiti (ed. Minimum Fax). Pancake nacque nel 1952 e morì suicida, sparandosi, nella Domenica delle Palme dell’aprile 1979. Aveva ventisei anni e i racconti di Trilobiti sono tutto ciò che ha scritto in vita. Alto e biondo, amava cacciare, campeggiare e andare a pesca. Adorava Phil Ochs, la sua canzone preferita era Jim Dean of Indiana. Ochs si era suicidato tre anni prima e un giorno dopo di Pancake. Per Joyce Carol Oates era bravo quanto Hemingway. A chi incontrava regalava i pesci che pescava e i trilobiti che trovava, fossili cristallizzati come i protagonisti dei suoi racconti, abitanti di un’America minore, allagata dal tempo, da Dio, impestata da tartarughe, e volpi e galli e vespe.

La periferia proletaria americana in Questa America (ed. Fazi) di Holly Goddard Jones e Stephen Markley nella sua opera prima, Ohio (ed. Einaudi Stile Libero)
Altra raccolta di racconti, ambientata poco a più sud, nel Kentucky, è Questa America (ed. Fazi) di Holly Goddard Jones, sette storie ferocissime che vanno a comporre il manifesto impietoso della periferia proletaria americana, tra supermercati, fabbriche, cene al Pizza Hut. Immaginario riproposto da Stephen Markley nella sua notevole opera prima, Ohio (ed. Einaudi Stile Libero). Il racconto gira attorno alle vite di un gruppo di millenial spezzate dalla storia e dalle politiche economiche degli ultimi trent’anni, ed è una storia di fantasmi, di cambiamenti, di ricordi e decisioni sbagliate che spiega il declino delle città industriale dell’Ohio, lo spaccio e il consumo di droga, la crisi esistenziale di chi resta e si arrugginisce. Il resoconto elettrico dello squarcio di una terra massacrata.


Heartland di Sarah Smarsh, giornalista del Kansas, specializzata in questioni economiche, politiche e sociali
C’è un altro libro ancora. Un altro memoir. Si chiama Heartland (ed. Black Coffee), l’ha scritto Sarah Smarsh, giornalista del Kansas, specializzata in questioni economiche, politiche e sociali, discendente da cinque generazioni di agricoltori. È un racconto di famiglia e anche un’analisi impietosa sugli Stati rurali, terra di nessuno, dove il sogno americano si spezza. Il sottotitolo al libro recita: al cuore della povertà nel paese più ricco del mondo.