Sanremo 1986, Loredana Bertè canta Re
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Sanremo, cultura e controcultura sul palco: le canzoni e i momenti più ruvidi

Carlo Conti ha spinto per una versione leggera del Festival – ma la storia di Sanremo l’hanno fatta i momenti di ruvidità – da Bobby solo con l’ombretto a Loredana Bertè in pelle nera e finto pancione: quando il palco è stato scomodo

Gli ultimi anni del Festival di Sanremo – poche canzoni ruvide

Negli ultimi anni il Festival è rinato, almeno dal punto di vista commerciale. Si ricordano successi pop, da Quando di Annalisa a Controvento di Arisa, ma di momenti di rottura come in passato non ce ne sono più stati. Il più grande lo è stato suo malgrado. Mahmood, milanese di periferia dalla carnagione olivastra (padre egiziano e madre sarda) nel 2019 vince all’Ariston con Soldi e scatena il panico. Ha vinto solo grazie al voto dei giornalisti radical chic e di sinistra. Solo perché non è italiano (ed è anche gay). Doveva vincere Ultimo. Nessuno si ricorda oggi la canzone di Ultimo di quell’anno, tutti si ricordano Soldi. Mahmood avrebbe vinto di nuovo nel 2022 con Brividi, insieme a Blanco.

Di ruvidità forse un po’ la musica ha perso. Si è parlato del bacio tra Fedez e Rosa Chemical, di Blanco che distrugge i fiori della scenografia, di Achille Lauro che bacia Bossdoms, di Achille Lauro che si battezza da solo sul palco per far arrabbiare Chiesa e partiti di destra, di Morgan e le brutte intenzioni e la maleducazione rinfacciata sul palco a Bugo. Prima ancora di Belen che apre il vestito mostrando la farfallina tatuata sull’inguine, di Emanuele Filiberto di Savoia con Pupo che cantano Italia amore mio.

Quest’anno dall’Ariston la politica è stata messa al bando – il conduttore e direttore artistico Carlo Conti ha scelto l’amore

Allo scorso Festival di Sanremo il brano più scomodo è stato Casa mia di Ghali, con il suo riferimento alla pioggia di bombe con cui Israele stava radendo al suolo la Striscia di Gaza (‘Ma come fate a dire che qui tutto è normale. Per tracciare un confine, con linee immaginarie, bombardate un ospedale’). Dargen D’Amico cantava di migranti in Onda alta (‘Alla contraerea sopra un palloncino, tutta questa strada per riempire un frigo. Per sentirti vivo hai solo un tentativo. Ormai ho deciso. Scusa se non ti avviso, ti mando quello che mi avanza se ci arrivo’).

Quest’anno dall’Ariston la politica è stata messa al bando. Lo ha già fatto sapere mesi fa il conduttore e direttore artistico Carlo Conti. Si canterà quindi quasi o solo d’amore, eccezion fatta per Grazie ma no grazie di Willie Peyote: ‘Dovresti andare a lavorare e non farti manganellare nelle piazze, grazie ma no grazie. Questa gente non fa un cazzo li mantengo tutti io con le mie tasse, grazie ma no grazie’. Qualcuno riuscirà a lasciare un segno nella storia di un Festival fatto più di momenti dimenticabili che altro?

Sanremo 1961: Adriano Celentano e i suoi 24 mila baci cantava (quasi) di sesso

Nel 1961, quando andava in scena ancora al Casinò di Sanremo, Adriano Celentano portava 24 mila baci. Già criticato per aver preferito la competizione che servire la Patria (era in età di leva obbligatoria e aveva dovuto chiedere un permesso al ministro della Difesa Giulio Andreotti per partecipare), insieme a Little Tony cantava: ‘Niente bugie meravigliose, frasi d’amore appassionate, ma solo baci che do a te’. Non proprio sesso, ma quasi: un testo del genere aveva passato le selezioni. Il pensiero medio veniva ben riassunto dalla stampa. Si parlava di un’esibizione fatta di ‘urli’ e ‘dimenamenti’. Peggio ancora che, in segno di protesta per le polemiche legate alla leva, Celentano cantò la prima metà del brano rivolgendo le spalle al pubblico. Come si era permesso? Fuori dal Festival l’Italia ne andò matta.

Adriano Celentano, 24mila baci
Adriano Celentano, 24mila baci

Bobby solo con l’ombretto, Celentano contro la speculazione edilizia a Milano e il suicidio di Luigi Tenco

Nel 1965 a far rabbrividire i buoni padri di famiglia fu Bobby Solo, in gara con Se piangi, se ridi. Si presenta sul palco con gli occhi truccati. Mascara e un po’ di ombretto. Eresia nei salotti di casa degli italiani: che fosse omosessuale? In realtà stava solo copiando il suo idolo, Elvis Presley. L’anno dopo è di nuovo Celentano il concorrente più pruriginoso. Non per una nuova sfida alla pudicizia, ma perché andava a infastidire grandi interessi commerciali. Il ragazzo della via Gluck era una critica aperta alla speculazione edilizia e alla selvaggia cementificazione che stava asfaltando Milano. ‘Là dove c’era l’erba ora c’è una città. E quella casa in mezzo al verde ormai dove sarà. Non so, non so perché continuano a costruire, le case e non lasciano l’erba’. Fu escluso dalla finale.

Sanremo non è però solo canzoni ed esibizioni: questa è forse l’unica costante della sua vita. Nel 1967 sul Festival si schianta un demone. L’impronunciabile. Luigi Tenco si suicida nella sua stanza all’Hotel Savoy. Era arrivato in gara carico di speranze, con la presunzione di vincere. Era sicuro di aver fatto il colpaccio: con lui si esibiva Dalida, grande star internazionale. La sua Ciao amore ciao racimolò appena 38 voti (su 900). Tenco, 28 anni, si spara in testa. Un brutto colpo per l’Italia del cattolicesimo, religione per cui il suicidio resta tra i peccati più gravi.

Luigi Tenco, Sanremo 1967
Luigi Tenco, Sanremo 1967

Dal Controfestival di Dario Fo e Franca Rame alla presa in giro di Rino Gaetano con Gianna

Dietro l’angolo c’era il 1968, con intellettuali e studenti che presero posizione contro una società capitalista e moralista. La protesta arrivò anche a Sanremo: dentro il Teatro Ariston, mentre il Festival andava ancora in scena al Casinò, Dario Fo e Franca Rame portavano il loro Controfestival. Si criticava il conformismo della musica leggera italiana, troppo lontana – per i suoi detrattori – dalla vita reale e troppo piegata a logiche commerciali. Chiusa questa parentesi sovversiva, il Festival andò avanti indisturbato per la sua strada. Riguardando agli anni Settanta, l’artista che più mise in discussione lo status quo della competizione fu forse Rino Gaetano. Era il 1978 e si presentava in gara con Gianna.

Anche se gli stacchi di coscia in televisione ormai si facevano sempre più frequenti, prima di allora alle orecchie del pubblico di Sanremo non era mai arrivata la parola ‘sesso’. Quello era però un simulacro, un finto-scandalo. La Gianna cantata da Gaetano era l’impersonificazione del perbenismo italiano. Era chiunque fosse disposto a dimenticare ideali e convinzioni, di cui a lungo si era fatto portavoce, per vivere nell’agio e tenersi stretti i suoi privilegi. Gaetano si presentò sul palco con frac e cilindro, a prendere in giro la solennità di cui il Festival si era auto-rivestito.

Sanremo: eroina e finte gravidanze, Alice e Loredana Bertè

Intanto in Italia, come ovunque nel mondo, era arrivata l’eroina. Nel 1981 Alice è all’Ariston con Per Elisa, scritta insieme a Franco Battiato e Giusto Pio. ‘Per Elisa, vuoi vedere che perderai anche me. Per Elisa, non sai più distinguere che giorno è. Vivere, vivere, vivere non è più vivere. Lei ti ha plagiato, ti ha preso anche la dignità. Fingere, fingere, fingere non sai più fingere. Senza di lei, senza di lei ti manca l’aria’. Alice passò anni a negarlo, ma al Paese – costellato di siringhe – il testo, più che di una storia d’amore, sembrava parlare di dipendenza. Ruvida a sua insaputa (forse).

Al di là delle due comparsate di Vasco Rossi – nel 1982 con Vado al massimo e nel 1983 con Vita spericolata – e del viaggio nella musica del futuro con Vacanze romane dei Matia Bazar (1983), per un’annata pruriginosa bisogna aspettare il 1986. Quell’anno Loredana Bertè canta Re. Sale sul palco con vestito disegnato da Sabatelli. Pelle nera, spalline chiodate, gambe scoperte e finto pancione da ingravidata: «Volevo dimostrare che una donna quando è incinta non è malata ma è ancora più forte». I tempi erano ancora ben poco maturi: di maternità si parla ancora oggi con un velo di riverenza, figuriamoci 39 anni fa. Andò malissimo. La sua casa discografica, la CBS, fece saltare il contratto.

Loredana Bertè, Sanremo 1986
Loredana Bertè, Sanremo 1986

Lo stupro cantato da Luca Barbarossa e le tette di una sedicenne di Leo Leandro – Sanremo 1993

Più fortunato di Bertè, due anni dopo, Luca Barbarossa, che a Sanremo cantava L’amore rubato di uno stupro. ‘Adesso muoviti, fammi godere. Se non ti piace puoi anche gridare, tanto nessuno potrà sentire, tanto nessuno ti potrà salvare’. Ancora oggi un velo di ambiguità rimane invece sulla comparsata al Festival di uno sconosciuto Leo Leandro. Siamo nel 1993 e la canzone è Caramella:

Hai sedici anni, ma guarda tu. Ormai io li ho passati da un po’, ma tu mi piaci troppo però mangi troppe caramelle, gnam gnam gnam. Scappi e lasci i brividi a pelle. E il ritornello: Caramella all’albicocca, guarda che bocca. Caramella alla mora, guarda che bona Caramella stammi stretta, ma quanta frutta, ti chiedo un bacio e ti fai brutta Caramella alla pera, che merendera Caramella anche alla mela, che seno a pera. Vieni a casa mia stasera ma vieni sola, mi ridi in faccia e scappi via’.

Leandro aveva 24 anni, ne dimostrava almeno 10 in più, e cantava delle tette di una sedicenne. Aveva anche l’aspetto del maniaco. Qui la prospettiva è da ribaltare: oggi un brano simile non entrerebbe mai in gara.

La premonizione di Tangentopoli e l’abusivismo – 1992, Pierangelo Bortoli con Italia d’oro

Politico in senso stretto fu, nel 1992, Pierangelo Bortoli con Italia d’oro. Accarezzando il precipizio in cui sarebbe finito il Paese con Tangentopoli e Mani Pulite, parlava di corruzione nelle istituzioni e nelle forze dell’ordine, ‘delle tangenti e dei boss tutti liberi, di un’altra bomba scoppiata in città’. Intento simile, qualche anno dopo, quello de La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese. Uno spaccato d’Italia senza pietà: ‘Parcheggi abusivi, applausi abusivi. Villette abusive, abusi sessuali abusivi. Tanta voglia di ricominciare, abusiva. Appalti truccati, trapianti truccati. Motorini truccati che scippano donne truccate’.

Sanremo e l’omosessualità, Sulla porta di Salvatore e Luca era gay di Povia: gli antipodi

Quasi caduta nel dimenticatoio è Sulla porta di Federico Salvatore (1996), il primo a parlare di un coming out all’Ariston. ‘Mamma son qui con le valigie sulla porta e in macchina c’è un uomo che mi sta ad aspettare. La verità lo so ti lascerà sconvolta, quell’uomo è il mio primo vero amore’. C’era solo una parola che gli autori di Pippo Baudo, conduttore di quell’anno, gli avevano chiesto di non pronunciare: omosessuale. La terza serata Salvatore sfidò la censura. ‘Oh mamma non capisci come è falsa la morale, la maschera di fango bagnata nell’argento. Sono un diverso mamma, un omosessuale. E questo tu lo prendi come un tradimento’.

Dal terzo posto scivolò verso la fine della classifica. Nessuna censura, ma un secondo posto e il Premio Mogol per il miglior testo, a Luca era gay di Povia (2009), la storia di un uomo che da omosessuale (lo era a causa del papà che lo aveva abbandonato e di una mamma disfunzionale) in età adulta incontra una donna e si trasforma in eterosessuale.

Giacomo Cadeddu

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