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Cashmere e re-cashmere: dalla fibra naturale al tessuto rigenerato

Qual è la composizione del cashmere? Riflessione sull’impatto ambientale di questa fibra naturale – mentre il cashmere rigenerato ridisegna la filiera tessile: certificazioni, tracciabilità e innovazione

Cashmere: origine e trasformazione della fibra

Il cashmere è una fibra naturale ricavata dal sottovello della capra hircus, una specie diffusa principalmente in regioni caratterizzate da inverni rigidi ed escursioni termiche notevoli, come la Mongolia, la Cina, l’Iran e l’Afghanistan. Proprio l’ambiente ostile in cui vivono favorisce lo sviluppo di un sottovello molto soffice e isolante, indispensabile a proteggere l’animale dalle temperature più basse. Conosciuto per la sua morbidezza e per le proprietà termiche, il cashmere deve la propria resistenza ed elasticità alla presenza della cheratina, una proteina che ne costituisce la struttura principale.

La raccolta della fibra avviene durante la muta primaverile, quando le capre perdono naturalmente il sottovello. Il metodo più utilizzato, la pettinatura manuale, permette di separare con cura la fibra pregiata (down) dal pelo più grossolano (guard hair), preservandone la qualità. Tuttavia, la resa annuale è alquanto limitata: ogni singolo animale fornisce mediamente solo 150-200 grammi di fibra idonea alla filatura, mentre la porzione rimanente, più ruvida, viene scartata. Prima di arrivare al filato finale, le fibre subiscono un’ulteriore selezione per colore, lunghezza e purezza, seguita da un accurato lavaggio che serve a eliminare impurità e lanolina in eccesso. La fase di “dehairing”, ossia la rimozione dei peli più lunghi e duri, riduce ulteriormente la quantità di materiale utilizzabile, rendendo il cashmere una materia prima relativamente rara e preziosa.

La produzione annua mondiale di cashmere grezzo si attesta tra le 15.000 e le 20.000 tonnellate. È un quantitativo apparentemente elevato, ma che risulta dimezzato dopo i vari passaggi di pulizia e separazione. Proprio l’esclusività e la laboriosità del processo, unite alle notevoli proprietà del materiale, hanno contribuito alla fama del cashmere in tutto il mondo e ne giustificano il prezzo elevato sui mercati internazionali.

Impatto ambientale e sostenibilità del Cashmere

La costante crescita della domanda globale di cashmere ha spinto numerosi allevatori a incrementare il numero di capre, alimentando però un problema di sovrapascolo. In Mongolia, per esempio, la pressione sulle praterie ha portato a un progressivo degrado del suolo, secondo uno studio della Nature Conservancy: il 70% dei pascoli mongoli risulta compromesso. Le capre, infatti, brucano le piante fino alla radice, impedendone la ricrescita e accelerando la desertificazione. A questo fenomeno si somma l’influsso dei cambiamenti climatici, che accentuano ulteriormente le problematiche legate all’erosione del terreno e alla perdita di biodiversità.

Anche la sostenibilità economica delle comunità di allevatori è a rischio, poiché la riduzione progressiva dei pascoli disponibili mette in pericolo la sopravvivenza delle greggi, compromettendo i ricavi futuri. In tale contesto, l’industria del cashmere è chiamata a sperimentare soluzioni e modelli di allevamento più responsabili, capaci di tutelare il benessere animale e la salute degli ecosistemi, senza dimenticare le necessità delle popolazioni locali.

Cashmere vergine e rigenerato

La produzione di cashmere vergine, che si basa esclusivamente sulla fibra raccolta dalle capre, implica un notevole impiego di risorse naturali e un impatto significativo sui territori d’allevamento. In risposta a queste criticità, si sta diffondendo il ricorso al cashmere rigenerato, derivato dal recupero di indumenti dismessi o di scarti di lavorazione industriale. Il processo di sfilacciatura e cardatura consente di ottenere un nuovo filato, con un minore costo ambientale rispetto al cashmere vergine. Le stime indicano una riduzione fino al 90% nel consumo d’acqua, dell’80% nell’impiego di energia e una diminuzione delle emissioni di CO₂ che può superare il 90%.

Esistono tuttavia aspetti tecnici da considerare. Il processo di rigenerazione comporta l’accorciamento delle fibre e una possibile riduzione della resistenza del filato. Alcune aziende, per mantenere intatte le prestazioni della fibra, scelgono di miscelare una percentuale di cashmere vergine con la fibra riciclata. Questo equilibrio tra componenti nuove e rigenerate permette di preservare la tipica morbidezza e il potere isolante del cashmere, garantendo al contempo un impatto ambientale molto inferiore rispetto al tradizionale approvvigionamento da allevamento intensivo.

Ettore Mariotti di TesmaWool

«Il nostro obiettivo è mitigare l’impatto del cashmere rigenerato lungo l’intera catena di produzione, senza compromettere la qualità e l’affidabilità del prodotto finale» afferma Ettore Mariotti di TesmaWool. «La sfida principale è garantire un controllo costante sulla provenienza della materia prima. Per questo motivo, ogni singolo acquisto di maglie usate è accompagnato da documentazione certificata che ne attesta l’origine e la qualità. Il nostro processo di selezione avviene manualmente, per assicurare che solo il miglior materiale venga riutilizzato. Questo sistema permette di garantire un prodotto finale che mantiene le proprietà del cashmere vergine, ma con un impatto ambientale notevolmente ridotto. Acquistiamo annualmente oltre 320.000 kg di maglie usate, producendo circa 290.000 kg di fibra rigenerata, garantendo un risparmio significativo di emissioni di CO2 e di acqua. Evitiamo la tintura superflua, riducendo i consumi idrici a zero e ottimizzando l’uso dell’elettricità».

Metodi di recupero e lavorazione 

Il processo di rigenerazione del cashmere si inserisce nei principi dell’economia circolare. La raccolta avviene tramite due canali: post-consumer, ovvero capi di abbigliamento dismessi, e pre-consumer, che comprende gli scarti di lavorazione industriale. Il materiale viene selezionato manualmente per colore e composizione, evitando il ricorso a nuove tinture e riducendo l’impatto ambientale.

La sfilacciatura trasforma il tessuto in fibre che vengono successivamente cardate per ottenere un nuovo filato. Questo processo conserva le proprietà termiche del cashmere, pur comportando una perdita nella lunghezza delle fibre. Per compensare questa riduzione, alcune aziende aggiungono una percentuale di cashmere vergine, migliorando le prestazioni del filato senza compromettere il risparmio ambientale.

TesmaWool
TesmaWool

Marco e Matteo Mantellassi di Manteco

«Abbiamo adottato strategie per ridurre lo spreco tessile e favorire una produzione a basso impatto» dichiarano Marco e Matteo Mantellassi di Manteco. «Uno degli aspetti chiave è il mantenimento delle competenze necessarie per la selezione e la lavorazione delle fibre riciclate. La capacità di distinguere e classificare le materie prime, unita all’innovazione tecnologica, consente di ottenere tessuti rigenerati di alta qualità. L’accurata selezione degli indumenti usati e l’impiego di processi avanzati di cardatura e filatura sono essenziali per preservare le caratteristiche originarie del cashmere. Nel 2024 i nostri tessuti di cashmere sono stati certificati EPD Environmental Product Declaration, garantendo ai brand la possibilità di sapere il loro esatto impatto ambientale, oltre alle nostre garanzie in termini di tracciabilità e trasparenza. Di tutto il cashmere che utilizziamo nella nostra produzione, circa il 60% è riciclato, ed evitiamo l’utilizzo di fibre sintetiche ove possibile».

Certificazioni e tracciabilità nella filiera tessile

Le certificazioni internazionali garantiscono la trasparenza lungo la filiera. Il Global Recycled Standard certifica che almeno il 20% del materiale utilizzato proviene da fibre rigenerate, ma alcune aziende superano questa soglia, utilizzando fino al 95% di cashmere rigenerato nei loro prodotti.

Alcuni marchi hanno introdotto iniziative di economia circolare, incentivando la restituzione di capi usati per il riciclo e offrendo sistemi di tracciabilità digitale. L’uso della blockchain nella filiera tessile permette di certificare l’origine del materiale e monitorare ogni fase del processo produttivo.

Manteco
Manteco

Malo – cashmere certificato ICEA

«Il nostro cashmere certificato ICEA assicura che ogni fase della lavorazione avvenga secondo criteri etici e ambientali rigorosi» aggiunge l’azienda Malo. «Abbiamo scelto di adottare un approccio che integra maestria artigianale e ricerca avanzata, per ridurre l’impatto ambientale della nostra produzione. Utilizziamo esclusivamente fornitori certificati e collaboriamo con partner che rispettano rigorosi standard di sostenibilità. La qualità del nostro cashmere rigenerato è garantita da test approfonditi di resistenza e morbidezza, effettuati in ogni fase del processo produttivo». «Ci affidiamo a coloranti certificati GOTS e a estratti vegetali per garantire il minimo impatto ambientale nella tintura. Nella nostra produzione, evitiamo il più possibile l’impiego di fibre sintetiche, ma in alcuni casi utilizziamo piccole percentuali delle suddette per migliorare la resistenza e la durata dei filati, riducendo la necessità di sostituzione e prolungando il ciclo di vita del prodotto».

Malo
Malo

Prospettive di mercato e innovazione etica

Le politiche di sostenibilità adottate da marchi internazionali dimostrano che il cashmere rigenerato può essere parte integrante di strategie aziendali orientate alla riduzione dell’impatto ambientale. La collaborazione tra aziende, istituzioni e consumatori sarà determinante per il consolidamento del cashmere rigenerato nel mercato globale. La transizione verso un modello di produzione più sostenibile richiede un impegno congiunto tra industria e filiera, con il supporto di normative e incentivi che favoriscano la circolarità delle risorse tessili.

«Garantire la trasparenza dell’intera filiera produttiva è cruciale per costruire un sistema di moda più responsabile e accessibile» concludono Marco e Matteo Mantellassi di Manteco. «Per questo motivo, collaboriamo con gli stessi fornitori da anni, rafforzando la tracciabilità e ottimizzando il recupero degli scarti di lavorazione, creando un sistema chiuso in cui sia il produttore che il brand ne traggono beneficio».

Alessia Caliendo

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