Tacchini showroom

Tacchini: domestico e antiretorico – micro-variazioni che modificano la percezione della forma

Dalla rilettura dei Maestri alla sperimentazione materica, Tacchini è un metodo fondato sul dialogo tra generazioni e sul nuovo spazio milanese come luogo di ricerca

Tacchini: la costruzione silenziosa di un linguaggio comune

Tacchini ha ridefinito la propria posizione nel panorama del design italiano, scegliendo una via meno appariscente ma più coerente: non la ricerca del pezzo iconico, bensì la costruzione di un linguaggio condiviso tra progettisti di generazioni e culture diverse. L’azienda, nata nel 1967 a Seveso come impresa familiare radicata nel distretto brianzolo, ha trasformato la propria eredità manifatturiera in un metodo di lavoro fondato sul dialogo. Non più solo produzione, ma interpretazione; non tanto una collezione di oggetti, quanto un corpus di relazioni che si muovono tra architettura, arte e artigianato.

Nel corso di questo percorso, Tacchini ha consolidato due direzioni complementari. Da un lato, la cura della memoria: la rilettura dei Maestri del design italiano, da Mario Bellini a Tobia Scarpa, intesa non come esercizio nostalgico ma come strumento per capire cosa resta vivo di una tradizione. Dall’altro, una sperimentazione materica e processuale, condotta con designer che esplorano linguaggi non codificati, vicini all’arte, alla scultura o alla progettazione intuitiva. L’incontro tra questi due poli – la riedizione e la ricerca – ha generato una costellazione di collaborazioni in cui il tempo non procede in linea retta, ma si piega in una trama di rimandi e ritorni.

Michael Anastassiades e la grammatica del rigore

Tra le collaborazioni che meglio raccontano l’attuale fase di Tacchini, quella con Michael Anastassiades occupa un ruolo chiave. Il designer cipriota, da anni basato a Londra, ha costruito un percorso coerente fondato sulla riduzione, sull’esattezza e su un’idea di forma come esito di una disciplina più che di un gesto estetico. Nei suoi lavori – dalle lampade lineari alle sedute – non c’è nulla di superfluo: ogni dettaglio risponde a una logica interna di equilibrio tra struttura, luce e peso.

Con Klotski, la sedia sviluppata per Tacchini, Anastassiades ha messo in pratica una ricerca che travalica il singolo oggetto per entrare nel campo della tipologia. Non una sedia “di autore” nel senso consueto, ma un dispositivo di studio: un’indagine sul rapporto tra stabilità, proporzione e costruzione. Il nome rimanda al celebre gioco di logica in cui piccoli blocchi si muovono all’interno di una griglia per liberarne uno più grande. È una metafora: il progetto si fonda sull’idea di spostamento minimo, di micro-variazioni che modificano la percezione della forma.

La sedia, nella sua apparente semplicità, nasconde un sistema raffinato di giunzioni invisibili e piani inclinati. Ogni elemento – dai braccioli al profilo dello schienale – è calibrato per generare continuità visiva e al tempo stesso garantire resistenza meccanica. L’impressione complessiva è quella di un oggetto neutro, quasi anonimo, ma solo in apparenza: osservandolo da vicino, si coglie la tensione tra controllo e impercettibile elasticità, come se la struttura fosse in costante equilibrio tra rigore e flessibilità.

Anastassiades affronta il legno con la stessa metodologia con cui da anni studia la luce. Nei suoi apparecchi luminosi, la geometria serve a canalizzare l’intensità luminosa; qui, la geometria regola la forza e la distribuzione del peso. In entrambi i casi, il progetto è un esercizio di misura: sottrarre fino a quando ogni elemento non diventa indispensabile. L’idea non è ridurre per sottrarre, ma ridurre per arrivare al punto in cui la forma smette di essere decorazione e diventa struttura.

La versione in ciliegio mette in risalto le venature lineari e la coerenza del materiale, un dialogo continuo tra superficie e massa; quella in verde laccato opaco accentua invece la componente grafica, facendo emergere il disegno complessivo come se fosse una silhouette sospesa nello spazio. Entrambe le varianti rivelano la volontà di Anastassiades di trattare il colore come una parte integrante dell’architettura dell’oggetto, non come finitura accessoria.

Tacchini - Michael Anastassiades, Klotski, Andrea Ferrari
Tacchini – Michael Anastassiades, Klotski. Ph. Andrea Ferrari

Faye Toogood e la materia come esperienza sensoriale

Nel progetto Bread & Butter, sviluppato con Faye Toogood, l’approccio è opposto ma complementare. La designer inglese, abituata a lavorare sul confine tra arte, moda e design, costruisce un mondo tattile e sperimentale, in cui la materia diventa linguaggio. La collezione – che comprende il Butter Sofa, i tavolini Bread, la Consolle Bread e il Vassoio Butter – è nata letteralmente dalle mani dell’autrice, che ha modellato i primi prototipi usando pane e burro.

Il gesto, volutamente domestico e antiretorico, riassume una poetica: il design come manipolazione diretta della materia, come pratica quotidiana, come antidoto alla standardizzazione. Toogood costruisce forme che non inseguono la perfezione geometrica ma la morbidezza del gesto; il frassino tinto e gli intarsi in acero rievocano la manualità di un laboratorio più che la precisione industriale. L’immagine complessiva è quella di un mondo interiore: volumi pieni, curve generose, superfici levigate che parlano più al tatto che allo sguardo.

Tacchini, dal canto suo, inserisce questa collezione in un percorso di ricerca sulla sensualità dei materiali: non una fuga nel decorativo, ma una riflessione sull’oggetto come esperienza corporea, in cui comfort e tattilità sono parte di un sistema culturale più ampio.

Tacchini - Faye Toogood, Butter sofa
Tacchini – Faye Toogood, Butter sofa

Objects of Common Interest: la memoria come rifrazione

Un’altra tappa di questo itinerario è la collaborazione con Objects of Common Interest, lo studio greco-newyorkese di Eleni Petaloti e Leonidas Trampoukis. Con la serie di specchi Tact & Trace e vasi Refract, Tacchini entra in un territorio meno narrativo e più concettuale. Le opere in resina semitrasparente, colorate e prismatiche, mettono in scena il tema della riflessione come costruzione della memoria.

La ricerca di Petaloti e Trampoukis nasce dal ricordo di un cristallo di famiglia: un oggetto minore, domestico, che diventa pretesto per indagare il modo in cui la luce deforma il ricordo. La resina, materiale industriale ma qui trattato con sensibilità artigianale, riporta Tacchini verso un design ibrido, sospeso tra l’oggetto d’uso e la scultura. I riflessi, le distorsioni cromatiche e le trasparenze creano un dialogo tra permanenza e precarietà, due parole che descrivono bene anche la filosofia aziendale degli ultimi anni: recuperare, ma senza cristallizzare.

Tacchini - Objects of Common Interest, Refract
Tacchini – Objects of Common Interest, Refract

Il ritorno dei Maestri: Mario Bellini e la logica del sistema

Parallelamente al dialogo con la scena contemporanea, Tacchini ha continuato a lavorare in profondità sul patrimonio del design italiano, inteso non come repertorio da replicare ma come un insieme di pensieri e processi da riattivare. Le riedizioni di questi anni non hanno nulla di nostalgico: funzionano piuttosto come un esercizio di archeologia industriale, un modo per capire come certe idee del passato possano ancora interrogare il presente. Rimettere in produzione un progetto storico significa infatti entrare nel suo linguaggio costruttivo, verificarne le proporzioni, adattarlo alle tecniche odierne e restituirgli vitalità senza tradirne lo spirito originario.

Nel caso di Mario Bellini e del suo divano “Le Mura”, Tacchini ha affrontato uno dei manifesti più riconoscibili del design radical degli anni Settanta. Disegnato nel 1972, “Le Mura” non era semplicemente un divano modulare ma un frammento di architettura domestica, pensato per definire spazi e relazioni più che per arredarli. La sua costruzione a blocchi morbidi, accostabili teoricamente all’infinito, traduceva in forma il desiderio di libertà e di socialità che caratterizzava quella stagione. Nella riedizione, l’azienda ha scelto di mantenerne l’impianto originario aggiornandone i materiali e introducendo una versione XL che amplifica la profondità della seduta e il comfort, senza alterare la forza concettuale del progetto. In un momento in cui la modularità è tornata centrale, il recupero di Bellini non appare come un omaggio ma come una riflessione sul metodo: l’innovazione non consiste nel disegnare forme nuove, ma nel riformulare il rapporto tra corpo, spazio e costruzione.

Tacchini - Mario Bellini, Le Mura XL
Tacchini – Mario Bellini, Le Mura XL

Cini Boeri e la libertà dello spazio domestico

Cini Boeri, con il tavolino Tako, rappresenta un altro capitolo di questa lettura attiva degli archivi. Ideato negli anni Settanta, il progetto nasceva come estensione del pavimento domestico, un piano basso e ospitale destinato a spostarsi liberamente nello spazio. Boeri aveva intuito che la flessibilità non dipende dalla tecnologia ma dal modo in cui gli oggetti accompagnano i gesti quotidiani. Tacchini ha ripreso quel principio aggiornandolo con una doppia versione: la prima, filologicamente fedele, in legno laccato bianco con gambe in acciaio cromato; la seconda, più sperimentale, con piano in marmo ceppo cremo, materiale legato all’architettura milanese. La riedizione non mira a “modernizzare” l’oggetto ma a restituirne il significato originario: un invito alla convivialità e alla libertà di disposizione nello spazio domestico.

Infine, la riscoperta di Afra e Tobia Scarpa con la sedia Africa porta nel catalogo Tacchini un esempio di ebanisteria contemporanea. Disegnata nel 1975, la sedia condensa in pochi elementi il pensiero dei due architetti: la precisione costruttiva del legno massello di noce canaletto, la sottigliezza delle proporzioni, la forza plastica dello schienale attraversato da una fenditura verticale che unisce funzione ed espressione. Africa non è un oggetto d’epoca ma un dispositivo ancora attuale per comprendere come materia e forma possano fondersi in un’unica idea di struttura. Con questo progetto Tacchini riafferma il legame con la tradizione del legno come valore identitario e con una cultura del fare in cui la manualità non è un residuo artigianale, ma una componente conoscitiva del design.

Tacchini - Tobia Scarpa, Africa
Tacchini – Tobia Scarpa, Africa

La materia riflessa: Roberto Sironi e NUOVA

Tra le collaborazioni più recenti, quelle con Roberto Sironi e con lo studio NUOVA mostrano due direzioni complementari della ricerca Tacchini: la prima esplora la scultura come funzione, la seconda la luce come soglia percettiva. Entrambe si muovono sul confine tra arte e design, dimostrando come la produzione possa farsi strumento di riflessione culturale.

Il tavolino Torso di Roberto Sironi nasce da un modello in argilla successivamente tradotto in fusione di alluminio lucidato. La forma, ispirata alle composizioni di Constantin Brâncuși, alterna volumi pieni e superfici specchianti che assorbono e restituiscono la luce, dilatando la percezione dello spazio circostante. Sironi, che da tempo indaga la materia come archivio di conoscenza, concepisce Torso come un organismo ambiguo: scultura autonoma e, al tempo stesso, oggetto funzionale. L’alluminio riflette non solo ciò che lo circonda, ma anche l’idea di un design che si autorigenera attraverso il gesto artistico. In questo senso Tacchini si spinge in un territorio di confine, dove il fare industriale diventa occasione di ricerca sulla materia e sul tempo.

Tacchini - Roberto Sironi, Torso
Tacchini – Roberto Sironi, Torso

La lampada Andrea, firmata dallo studio NUOVA, traduce invece un immaginario retro-futurista in una struttura di acciaio con rivestimento PVD argentato. Nata durante una residenza artistica negli Stati Uniti, il progetto rielabora le suggestioni minimali di Donald Judd e l’estetica dell’illuminazione spaziale anni Settanta. Qui la luce non è un elemento accessorio ma una soglia: un portale luminoso che trasforma l’ambiente in un luogo sospeso, in bilico tra tecnologia e introspezione. Con Andrea Tacchini indaga la dimensione atmosferica dell’oggetto, spostando il baricentro del design dalla forma all’esperienza percettiva.

Con questi due progetti l’azienda sperimenta una contaminazione controllata tra linguaggi: scultura, architettura e illuminotecnica dialogano entro una produzione misurata, quasi artigianale, dove il limite tra serie e pezzo unico diventa volutamente sfocato.

La lampada Andrea, firmata dallo studio NUOVA
La lampada Andrea, firmata dallo studio NUOVA

La memoria come progetto: Giusi Tacchini e la continuità familiare

Alla guida del marchio, Giusi Tacchini ha dato forma a una visione che non coincide con una strategia commerciale, ma con una riflessione culturale sul senso dell’abitare. La sua idea di impresa non è quella di un produttore di oggetti, bensì di una piattaforma curatoriale in cui si incontrano progettisti, architetti, artigiani, storici e aziende fornitrici. In questo modo Tacchini è riuscita a trasformare un’impresa familiare radicata nel territorio in un laboratorio aperto, in grado di tradurre la propria storia manifatturiera in una pratica culturale.

L’azienda nasce nel 1967 a Seveso, in Brianza, per iniziativa di Antonio Tacchini, padre di Giusi. È un periodo cruciale per il design italiano: le industrie del mobile del nord Milano vivono la transizione dal modello artigianale a quello industriale, e Tacchini si colloca esattamente su quella soglia. Fin dagli inizi la produzione si distingue per la qualità delle imbottiture e per la collaborazione con architetti emergenti. Negli anni Ottanta l’azienda consolida la propria presenza internazionale con una linea di divani e poltrone destinati agli spazi pubblici, ma la sua identità resta saldamente legata al lavoro di tappezzeria, al controllo diretto della filiera, alla dimensione quasi sartoriale della produzione.

Con l’ingresso di Giusi Tacchini negli anni Duemila, la direzione cambia gradualmente. Non si tratta di una rottura, ma di un passaggio generazionale che rilegge la tradizione alla luce del presente. La figlia del fondatore, cresciuta all’interno dell’azienda e formatasi in ambito artistico, introduce un modo diverso di intendere il design: non più solo prodotto ma narrazione culturale. Le collaborazioni con designer internazionali segnano una progressiva apertura verso linguaggi ibridi, in cui la manualità si combina con la sperimentazione concettuale.

Il nuovo showroom Tacchini a Milano, in Largo Treves Brera

Il nuovo showroom di Brera, realizzato in partnership con Spotti – storico punto di riferimento del design milanese – si trova in Largo Treves 5, al piano rialzato e seminterrato di un edificio residenziale d’inizio Novecento. L’appartamento, circa 300 metri quadrati, mantiene l’impianto originario della casa milanese di inizio secolo, con corridoi, porte, finestre e distribuzione degli ambienti quasi intatti. Il progetto architettonico si è concentrato su un restauro conservativo che ha messo in risalto gli elementi preesistenti: soffitti alti, parquet in rovere vissuto, infissi in legno, volte in mattoni a vista nel livello inferiore. Non ci sono stati interventi strutturali invasivi ma un lavoro di consolidamento e pulitura che ha permesso di preservare le tracce d’uso e le irregolarità delle superfici. L’obiettivo non era ottenere uno spazio neutro ma mantenere la memoria del luogo, lasciando che la materia dell’edificio dialogasse con quella dei mobili.

Lo showroom si sviluppa come un percorso domestico composto da stanze distinte che ripropongono la sequenza tipica della casa borghese milanese: ingresso, soggiorno, sala da pranzo, studio, zona notte. Ogni ambiente ospita una diversa interpretazione dell’abitare secondo Tacchini, con arredi combinati senza suddivisioni per collezioni o designer. La disposizione non segue un ordine espositivo ma suggerisce una narrazione continua in cui i pezzi storici e quelli contemporanei convivono. Le sei finestre che affacciano su Largo Treves e via Solferino sono parte integrante del progetto: lasciano entrare una luce naturale filtrata, permettendo di percepire la città in movimento e mantenendo un rapporto costante tra interno ed esterno. L’illuminazione artificiale è discreta, pensata per accentuare la profondità dei materiali e il tono caldo delle superfici.

Tacchini Showroom. Ph. Andrea Ferrari
Tacchini Showroom. Ph. Andrea Ferrari

Il progetto di interni e lo styling sono stati curati da Charlotte de La Grandière, in dialogo con Giusi Tacchini e con la consulenza di Claudio e Mauro Spotti, che hanno contribuito a definire la selezione cromatica e materica dello spazio. L’intervento ha definito una palette cromatica coerente, basata su tonalità pastello e superfici opache: azzurro chiaro, verde acqua, rosa pallido, giallo crema, bianco panna. Le pareti e i soffitti sono trattati con finiture a calce e modanature laccate bianco lucido, mentre i pavimenti conservano la patina originale. I tessuti e i complementi sono selezionati per integrare le proporzioni e i materiali degli arredi: velluti chiari, lane grezze, ceramiche non smaltate. L’obiettivo è evitare qualsiasi effetto scenografico e restituire una sensazione di continuità temporale, come se gli oggetti fossero sempre appartenuti a quello spazio.

Il piano seminterrato, originariamente destinato a locali di servizio, è stato recuperato e reso accessibile tramite una scala interna. Qui si trovano le aree di archivio e consultazione: un piccolo deposito di materiali, prototipi, campioni e documentazione tecnica che raccontano il lavoro dell’azienda. È una parte funzionale e allo stesso tempo espositiva, in cui si possono vedere modelli di lavorazione, prove di tessuti, legni e finiture. In questo modo lo showroom assume anche il ruolo di archivio tridimensionale, luogo di ricerca e confronto con progettisti, studenti e professionisti.

Matteo Mammoli

Tacchini Showroom. Ph. Andrea Ferrari
Tacchini Showroom. Ph. Andrea Ferrari